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Il primo Nobel con nome di donna

Io sono tra coloro che pensano che la scienza abbia in sé una grande bellezza. Uno scienziato, nel suo laboratorio, non è soltanto un tecnico: è anche un bambino posto di fronte a fenomeni naturali che lo impressionano, come fossero fiabe

 

Queste parole, pronunciate da Marie Curie durante un congresso a Madrid, un anno prima della sua morte, la rappresentano in tutta la sua straordinaria grandezza: ha dedicato la vita alla ricerca, perché per lei la scienza era essenzialmente meraviglia. Coraggiosa, brillante, un genio assoluto: prima donna a ottenere la laurea in fisica alla Sorbona e a essere nominata professoressa in quella stessa Università, prima donna a ricevere il premio Nobel e a essere eletta all’Accademia francese di medicina, unica donna due volte premio Nobel e, per giunta, in ambito scientifico e in un periodo in cui la scienza era ancora territorio tutto maschile.

Marie Sklodowska-Curie (1867-1934), polacca naturalizzata francese, meglio nota come Marie Curie, non ebbe una vita facile. Costretta a lasciare Varsavia poiché l’università era riservata solo agli uomini, si trasferì a Parigi e nel 1891 iniziò a frequentare la Sorbona dove, due anni dopo si laureò in fisica e l’anno seguente in matematica. Lo studio della radioattività fu sempre al centro dei suoi interessi tanto da farle conseguire il premio Nobel per la fisica nel 1903, assieme al marito Pierre Curie e a Antoine Henri Becquerel. Pochi anni dopo, nel 1911, conquisterà il secondo premio Nobel: questa volta da sola, per la chimica, grazie alla scoperta del radio e del polonio (chiamato così in onore del suo paese). Ha una concezione così disinteressata della scienza che, date le sorprendenti proprietà terapeutiche del radio, decide di non brevettarne il metodo di estrazione per renderlo immediatamente disponibile al genere umano. Purtroppo però, dopo la morte del marito, tutto il valore e la scienza di Madame Curie furono offuscati da calunnie e crudeli persecuzioni nei suoi confronti. La relazione con Paul Langevin, un collega più giovane, già sposato e padre, invase i giornali e la trasformò in “una straniera ladra di mariti”. Di quegli anni scriverà: “Vi sono stati momenti che conterò senza dubbio tra i più crudeli della mia vita. Io sento ogni cosa molto violentemente, con una violenza fisica, e poi mi scuoto, la vigoria della mia natura riprende il sopravvento, e mi sembra d’uscire da un incubo… Primo principio: non lasciarsi abbattere né dagli esseri né dagli avvenimenti”. E infatti non si farà travolgere dalle diffamazioni e dallo scandalo. Determinata a vedere riconosciuti i propri meriti, lavorerà ancora con maggiore impegno e si batterà con coraggio e tenacia per l’eguaglianza di genere e per l’emancipazione delle donne e dei popoli. Negli ultimi anni della sua vita fu colpita da una grave forma di anemia aplastica, malattia quasi certamente contratta per le lunghe esposizioni alle radiazioni di cui, all’epoca, si ignorava la pericolosità. Ella stessa, nei suoi diari, racconta che di notte aveva l’abitudine di recarsi col marito in laboratorio per contemplare i bagliori che provenivano dalle provette … ...”uno spettacolo incantevole e sempre nuovo. I tubi luminosi brillavano di luci di fate, di fantasmi”... Morì nel sanatorio di Sancellemoz di Passy in Alta Savoia, nel 1934, ma ancora oggi alcuni suoi manoscritti sono conservati in scatole piombate e i suoi ricettari di cucina si sfogliano indossando una tuta protettiva.

(versione pdf)

 

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