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Vita e morte delle aragoste

 

Chi è Vincenzo Teapot? Un amico mio. È famoso? No. È morto tragicamente? No, vive. E allora che ce ne frega? Giusto, arrivederci. La vita dell’uomo comune vale solo una narrazione privata, la memoria di chi gli vuole bene. E io, a Teapot, volevo molto bene.

“La vita o si vive o si scrive” diceva Pirandello, e dall'altra parte dello stretto di Messina questa verità pirandelliana deve aver proprio messo radici profonde. Quale coppia letteraria, secondo questa massima, può infatti essere più complementare se non quella formata da due amici, Vincenzo e Antonio, di cui il primo impegnato a bruciare il proprio vitalismo in un continuo mordere la vita e l’altro auto-confinato in un quieto secondo piano, intento a osservare, riflettere e raccontare. Così sono Antonio e Vincenzo, i due amici protagonisti di Vita e morte delle aragoste, secondo romanzo del giovanissimo e posatissimo narratore calabrese Nicola H. Cosentino (il primo si intitola “Cristina d’ingiusta bellezza” ed è stato pubblicato dall’editore Rubbettino nel 2016).

Una storia come tante altre quella raccontata da Cosentino attraverso la voce di Antonio. Una storia di amicizia adolescenziale e post-adolescenziale piena zeppa di eventi ma in cui niente di eccezionale sembra accadere: storie di scuola, di viaggi, di esami, di sbornie, di amori più o meno senza futuro ma con un’aura di eternità nel momento in cui accadono.  Niente di eccezionale se non sono eccezionali il rispecchiamento di un amico nella vita dell’altro; il trascorrere ed espandersi del loro e degli altri rapporti tra coetanei; l’osservarsi vicendevolmente vivere, crescere e mutare; il riconoscere nel passare del tempo e nella scansione dei piccoli eventi della vita di ventenni il lento ma inesorabile restringersi della carreggiata del futuro; la scoperta di come lo scorrere del tempo cambi il segno alle cose; e, all’orizzonte della consapevolezza, il sorgere lentamente del profilo della morte e della possibilità del fallimento.

Per questi aspetti il libro, incentrato sulla storia di un piccolo Gatsby che si snoda tra la Calabria, Roma e Siviglia, è divertente ma anche amaro, scorre lieve ma lascia sedimenti profondi.  La scrittura di Cosentino è tonda, controllata, si direbbe quasi classica ma di una classicità in cui sono state aperte a lungo le finestre per arieggiare; attraversata da sequenze di stampo cinematografico quasi scolastiche (come quella iniziale, con una teiera lanciata nella notte da non si sa chi contro un taxi in corsa); un andamento lento, vivacizzato da un montaggio che rimescola spazi e tempi per sequenze lunghe. È un atteggiamento sorprendente per uno scrittore venticinquenne, che evidentemente col narratore del libro condivide un understatement virtuoso, in un epoca in cui i suoi coetanei, come tanti Vincenzi, ambiscono a scrivere il Grande Romanzo che forse non è ancora nelle loro possibilità, e restano schiacciati nel proprio guscio. Con leggerezza e semplicità, ma anche con una buona dose di consapevolezza, invece, Cosentino scivola fuori dal suo carapace, come le aragoste del titolo, e c’è da credere che di guscio in guscio avrà tutto il tempo per crescere ancora.

Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)

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