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Vita di vita

In copertina, proprio sotto il titolo Vita di vita c'è scritto “romanzo” e per chi conosce lo sviluppo della scrittura di Eraldo Affinati dalle origini agli ultimi anni quella scritta non può che destare un pizzico di stupore. Sì perché, se uno sviluppo chiaro si poteva leggere nella vicenda di questo “soldato del '56”, quello era l'itinerario che aveva portato lo scrittore e l'uomo Affinati da una sorta di “religione della letteratura” delle origini a una vera e propria “religione dell'esperienza”: una scrittura sancita non più dai rituali letterari della produzione di metafore bensì dalla costante necessità di stare stretto alla verità dell'esperienza e di suturare le ferite provocate da questa non più prima di tutto con la scrittura bensì prioritariamente con le proprie azioni, e secondariamente con una scrittura che le sia fedele fino in fondo.
Un movimento lento e costante è stato quello che ha visto pian piano spostarsi l'asse dell'ispirazione del narratore e inquieto letterato autore di "Veglia d'armi" (la monografia sull'uomo di Tolstoj con cui ha magnificamente esordito nel 1992), verso la vena da “interrogatore della realtà” presente da sempre ma che ha cominciato a emergere soprattutto da "Campo del sangue" (1997), il racconto di un intensissimo viaggio ad Auschwitz compiuto a piedi e in treno in compagnia dell'amico poeta Plinio Perilli.

È una realtà, quella interrogata da Affinati, in cui il passato e il presente sono della stessa pasta, per cui per comprende il secondo bisogna interrogare il primo; una realtà in cui i luoghi mantengono un segno di ciò che vi è accaduto, una sorta di anima o di alone che non svanisce e che bisogna andare a vedere, odorare, ascoltare, toccare, assaggiare di persona per avere una percezione più concreta, veramente empatica, di cosa significhi la verità degli eventi: da qui la necessità del viaggio, alla ricerca di una sorta di “contaminazione volontaria” che ha portato lo scrittore romano a visitare tutti i luoghi più importanti della Storia e della letteratura (dalla dacia di Tolstoj ad Auschwitz, da Hiroshima alla casa di Bonhoeffer a Berlino, dalla tomba di Hemingway a Ground Zero...).

Affinati ha fatto sue queste domande, che gli giungevano congiuntamente dall'esperienza e dalla sua formazione culturale, fino a trasformarle in una bussola per la propria esistenza; una bussola che lo ha portato a farsi insegnante per giovani rifugiati nella "Città dei ragazzi", la storica comunità di accoglienza romana creata da John Patrick Carroll-Abbing, e a fondare con la moglie e un piccolo nucleo di affezionati amici la "Scuola Penny Wirton", una scuola sempre aperta e aperta a tutti, completamente gratuita e basata sul lavoro di volontari, per offrire a chi da straniero si trovi senza risorse nel nostro paese una possibilità di istruzione e di assistenza orientativa.

Ecco perché quella parola - “romanzo” - suona strana sulla copertina di questo ultimo libro. Fa pensare a priam vista alla sottolineatura di un cambio di direzione. Un retro-front radicale che, invece, va detto  chiaramente, non c'è stato. "Romanzo" vuol qui indicare il forte impianto narrativo della narrazione ma "Vita di vita", perfettamente nel solco delle ultime opere, sceglie il piano dell'esperienza e non quello della fiction e sceglie di nuovo di scavare dentro una realtà gravida di domande, inquietudini, scandali e dolori: sceglie, nel caso particolare, di raccontare un altro viaggio, l'ennesimo, compiuto da Affinati: stavolta nell'Africa nera sulle tracce della famiglia di Khaliq, nato in Sierra Leone e sopravvissuto ad esperienze estreme. A Khaliq, quando era ancora un allievo della Città dei ragazzi, il prof Affinati (anzi il “porof” come lo chiama l'allievo, storpiando l'italiano) aveva promesso che se il giovane africano avesse ritrovato la madre perduta lui sarebbe andato a conoscerla. E questo è ciò che accade e viene raccontato in "Vita di vita".
Un diario di viaggio, dunque, ancora una volta, in cui la narrazione si fa polifonica; vi trovano voce uomini e donne, giovani e vecchi, “noi” e “loro”, il passato e il presente, le parole degli studenti italiani mandati a morire al fronte durante la Prima guerra mondiale accanto a quelle che giungono per telefono degli studenti della Città dei ragazzi che sanno cosa significa rischiare la vita in nome della vita e che hanno trovato un formidabile compagno di viaggio nel loro professore; a ancora: le domande, i dubbi, le risposte, le delusioni e le ribellioni di un uomo che ha scelto di mettere la propria arte di scrittore al servizio di una arte ancora maggiore, quella dell'incontro, di cui questo libro costituisce una nuova grande testimonianza, sconfessando peraltro quel famoso adagio di Gide per cui “con i buoni sentimenti si fa cattiva letteratura”.

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