Stoner
È davvero singolare il destino di Stoner, dell'americano John Williams (1922-1994). Riemerso alle cronache letterarie internazionali quasi cinquant'anni dopo la sua prima pubblicazione (1965), che all'epoca non raccolse grandi attenzioni nemmeno in patria, e quasi vent'anni dopo la morte del suo autore, è diventato nel corso di pochi mesi un caso editoriale in mezzo mondo.
Il libro narra la storia semplice e un po' banale di un uomo che nella prima metà del Novecento si affranca dal destino di contadino, a cui la tradizione di famiglia sembrava averlo inevitabilmente predestinato, e diventa professore universitario. Gli eventi narrati sono quelli di una vita che si può senz'altro definirei qualsiasi: Stoner si sposa con una donna che non lo ama, perde i genitori, ha una figlia, la sua carriera professionale conosce una lenta e calma progressione con pochi successi e alcuni contrasti con i colleghi, ha una relazione sentimentale clandestina con una studentessa, vi mette fine suo malgrado, invecchia, va in pensione, muore. Niente di speciale, eppure John Williams trasforma questa vicenda antieroica per eccellenza in un racconto dal respiro universale, come sapevano fare i grandi narratori dell'Ottocento ma allo stesso tempo con una facilità e speditezza di racconto tutta contemporanea.
Sono rari i casi in cui un romanzo riesce a mettere d'accordo in modo talmente unanime sulla propria qualità tutti i generi di lettori, dai critici professionisti ai bloggers, dai lettori più forti ai più occasionali, e allo stesso tempo a dividerli e forse addirittura a disintegrare l'universo dei commentatori in una costellazione di interpretazioni anche opposte. William Stoner è, a seconda dalla prospettiva da cui lo si vuol leggere, un eroe della modestia, un campione delle “passioni fredde”, un uomo mediocre, remissivo, metodico, qualunque, grigio, senza qualità, ma anche “mite ed eroico”, eccezionale, appassionato, devoto, integro, un esempio di vita, eccetera.
Se volessimo sintetizzare quello che è il libro “Stoner” in una parola, quella parola sarebbe “un classico”. Ed è infatti a qualche altro classico che va il pensiero durante la lettura di queste pagine che procedono svelte e senza fronzoli ma pronte a sostare con naturalezza nei pressi delle inquietudini e dei dubbi più profondi della coscienza di ognuno. Stoner, con la sua vicenda semplice di progressivo restringimento del proprio cerchio di esistenza, ricorda il personaggio apparentemente opposto della modesta governante Felicita, protagonista di “Un cuore semplice”, il primo dei Tre racconti di Flaubert (che ne sarebbe stato di Felicita se un giorno fosse stata fulminata da un sonetto di Shakespeare?), ma con la venatura di dubbi e inquietudini dell'Ivan Il'ic di Tolstoj (vedi). E il capitolo finale, insieme a quelli dei due romanzi appena citati, costituisce una vera e propria trilogia insuperabile del raccontare la morte, che è da sempre uno dei modi più potenti a disposizione dei grandi scrittori per metterci di fronte alle domande fondamentali sulla nostra vita.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
Il libro è stato promosso nell'ambito del progetto Bibliodiversità della Biblioteca San Giorgio
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Ultimo aggiornamento mercoledì, 2 agosto 2017
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È davvero singolare il destino di Stoner, dell'americano John Williams (1922-1994). Riemerso alle cronache letterarie internazionali quasi cinquant'anni dopo la sua prima pubblicazione (1965), che all'epoca non raccolse grandi attenzioni nemmeno in patria, e quasi vent'anni dopo la morte del suo autore, è diventato nel corso di pochi mesi un caso editoriale in mezzo mondo.
Il libro narra la storia semplice e un po' banale di un uomo che nella prima metà del Novecento si affranca dal destino di contadino, a cui la tradizione di famiglia sembrava averlo inevitabilmente predestinato, e diventa professore universitario. Gli eventi narrati sono quelli di una vita che si può senz'altro definirei qualsiasi: Stoner si sposa con una donna che non lo ama, perde i genitori, ha una figlia, la sua carriera professionale conosce una lenta e calma progressione con pochi successi e alcuni contrasti con i colleghi, ha una relazione sentimentale clandestina con una studentessa, vi mette fine suo malgrado, invecchia, va in pensione, muore. Niente di speciale, eppure John Williams trasforma questa vicenda antieroica per eccellenza in un racconto dal respiro universale, come sapevano fare i grandi narratori dell'Ottocento ma allo stesso tempo con una facilità e speditezza di racconto tutta contemporanea.
Sono rari i casi in cui un romanzo riesce a mettere d'accordo in modo talmente unanime sulla propria qualità tutti i generi di lettori, dai critici professionisti ai bloggers, dai lettori più forti ai più occasionali, e allo stesso tempo a dividerli e forse addirittura a disintegrare l'universo dei commentatori in una costellazione di interpretazioni anche opposte. William Stoner è, a seconda dalla prospettiva da cui lo si vuol leggere, un eroe della modestia, un campione delle “passioni fredde”, un uomo mediocre, remissivo, metodico, qualunque, grigio, senza qualità, ma anche “mite ed eroico”, eccezionale, appassionato, devoto, integro, un esempio di vita, eccetera.
Se volessimo sintetizzare quello che è il libro “Stoner” in una parola, quella parola sarebbe “un classico”. Ed è infatti a qualche altro classico che va il pensiero durante la lettura di queste pagine che procedono svelte e senza fronzoli ma pronte a sostare con naturalezza nei pressi delle inquietudini e dei dubbi più profondi della coscienza di ognuno. Stoner, con la sua vicenda semplice di progressivo restringimento del proprio cerchio di esistenza, ricorda il personaggio apparentemente opposto della modesta governante Felicita, protagonista di “Un cuore semplice”, il primo dei Tre racconti di Flaubert (che ne sarebbe stato di Felicita se un giorno fosse stata fulminata da un sonetto di Shakespeare?), ma con la venatura di dubbi e inquietudini dell'Ivan Il'ic di Tolstoj (vedi). E il capitolo finale, insieme a quelli dei due romanzi appena citati, costituisce una vera e propria trilogia insuperabile del raccontare la morte, che è da sempre uno dei modi più potenti a disposizione dei grandi scrittori per metterci di fronte alle domande fondamentali sulla nostra vita.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
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