Sono il guardiano del faro
La letteratura italiana deve probabilmente alla forma del racconto breve il meglio della sua produzione narrativa contemporanea. Una lista di maestri del racconto per quanto lunghissima non sarebbe esaustiva: D'Annunzio, Pirandello, Tozzi, Palazzeschi, Moravia, Alvaro, Gadda, Savino, Delfini, Fenoglio, Manganelli, Landolfi, Calvino, Parise, Pavese, Levi, Wilcock, Buzzati... in rigoroso ordine sparso). Eppure dal punto di vista editoriale il racconto è da tempo visto come il fratello povero, poverissimo, del romanzo. Non si legge, dicono. Non si vende, dicono. E quindi non si pubblica. Nel vuoto lasciato dunque negli ultimi anni dalle case editrici maggiori, nasce il progetto di Racconti Edizioni, da un'idea di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco: approfittare della scarsa attenzione rivolta dagli editori più affermati nei confronti del racconto per diventare in Italia la casa editrice di riferimento per la narrativa breve. Una scelta "bibliodiversa" tout court e ancora di più se si approfondiscono le scelte di catalogo, con un attenzione particolare - pur senza restrizioni geografiche - a letterature considerate minori e a scrittori in lingue acquisite. Insomma, una vera e propria caccia al tesoro che mescola passione, competenza, ironia, coscienza anche etica e politica della missione editoriale e - non guasta mai - uno spirito guascone per il gioco e lo spiazzamento.
Come logo della casa editrice è stato scelto uno scarafaggio a pancia in sù. Impossibile non pensare a Kafka, nume tutelare della casa editrice e della forma-racconto, ma il riferimento più diretto è da cercarsi all'interno del catalogo. A partire dagli scarafaggi che affollano gli appartamenti di "Appunti da un bordello turco" dell'irlandese (ma emigrato in Romania) Philip Ó Ceallaigh per proseguire con quelli che compaiono nel complesso residenziale alla periferia di Bombay in "Lezioni di nuoto" di Mistry, i primi due libri mandati in stampa: entrambi ambientati alla periferia di grandi città (per quanto periferie estramamente diverse) ed entrambi perlopiù incentrati sulla vita di complessi residenzial popolari in cui si respira il profumo acre ma dignitoso di una povertà che si riscatta nella dignità dei suoi protagonisti, nella loro capacità di creare legami ed essere retti, verticali, rispetto ai propri principi. Riuscendo perfino a filosofeggiare di tanto in tanto, nell'atmosfera "in bianco e nero" piena di calcinacci e vodka del primo libro, nell'atmosfera satura di curry e personaggi colorati e singolari nel secondo.
Scarafaggi compaiono a sorpresa anche nel terzo libro pubblicato (e a questo punto è chiaro che gli editori stanno giocando a nascondino con i lettori), "Sono il guardiano del faro" di Éric Faye: libro di racconti metafisici e surreali, sicuramente il più kafkiano dei tre. Faye è un narratore dell'assurdo. Il suo personaggio più ricorrente è un viaggiatore sempre in bilico tra il ricordo delle motivazioni del viaggio e la sua più probabile dimenticanza. Emblematica in tal senso l'apparizione, nel racconto "Il vento delle 6.18", della città fantasma di Taka-Maklan, cancellata dagli orari dei treni e dalle mappe, dove gli abitanti frequentano l'Istituo dell'oblio: "È lì che vecchi, giovani e adulti si recano per seguire i corsi serali, s'impegnano a disimparare, a disingannarsi. Qui la gente persegue la propria desuetudine. I de-studenti ricevono un diploma quando imparano a disfarsi dell'essenziale." Bisogna superare lo scoglio del primissimo racconto, "Mentre viaggia il treno", un'allegoria fin troppo meccanica, per godere delle pagine di Faye. Il meglio sta, oltre che nel racconto ambientato a Taka-Maklan, in "Frontiere" e nel lungo racconto finale che dà il titolo al volume. "Frontiere" è una sorta di variazione del celebre "Sette piani" di Dino Buzzati, in cui un viaggiatore cerca di raggiungere la cima di una muraglia-frontiera, di cui non si vede mai la fine, incontrando nel corso del viaggio altri che prima di lui hanno tentato la stessa impresa e hanno finito per stabilirsi stabilmente sulla muraglia, trasmettendo alle generazioni successive un sogno e un'ambizione di cui non conoscono ormai più il senso. "Sono il guardiano del faro" sembra anch'esso una variazione buzzatiana, sul tema "Il deserto dei tartari", che viene infatti citato all'interno della narrazione: un guardiano si prende cura di un faro perso nelle distese marine, senza alcun territorio da presidiare, fuori da ogni rotta, lontano da ogni pericolo e cancellato via via anche dalle mappe marittime, ricevendo ordini contraddittori dal comando in terraferma e nonostante tutto prendendo estremamente sul serio il proprio compito fino ad identificarsi con esso.
Nel suo svolgere questi apologhi metafisici sul tema dell'alienazione, della solitudine, e dell'assurdo, lo scrittore francese esprime uno sguardo capace, soprattutto in certe iperboli, anche di un umorismo che riscatta il pericolo di una letteratura dell'assurdo fuori tempo massimo; per esempio quando al guardiano del faro viene spedita dalla terraferma una valigetta con tutto l'armamentario dell'agente di spionaggio o quando gli viene installato un telefono a cui però telefonano solo persone che hanno sbagliato numero. È così che, mentre ci fa riflettere sul senso delle nostre esistenze, Faye ci fa anche sorridere di noi stessi e delle nostre illusioni, aggiungendo all'amarezza una salvifica dose di autoironia.
Martino (Biblioteca San Giorgio)
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Ultimo aggiornamento giovedì, 20 luglio 2017
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La letteratura italiana deve probabilmente alla forma del racconto breve il meglio della sua produzione narrativa contemporanea. Una lista di maestri del racconto per quanto lunghissima non sarebbe esaustiva: D'Annunzio, Pirandello, Tozzi, Palazzeschi, Moravia, Alvaro, Gadda, Savino, Delfini, Fenoglio, Manganelli, Landolfi, Calvino, Parise, Pavese, Levi, Wilcock, Buzzati... in rigoroso ordine sparso). Eppure dal punto di vista editoriale il racconto è da tempo visto come il fratello povero, poverissimo, del romanzo. Non si legge, dicono. Non si vende, dicono. E quindi non si pubblica. Nel vuoto lasciato dunque negli ultimi anni dalle case editrici maggiori, nasce il progetto di Racconti Edizioni, da un'idea di Stefano Friani ed Emanuele Giammarco: approfittare della scarsa attenzione rivolta dagli editori più affermati nei confronti del racconto per diventare in Italia la casa editrice di riferimento per la narrativa breve. Una scelta "bibliodiversa" tout court e ancora di più se si approfondiscono le scelte di catalogo, con un attenzione particolare - pur senza restrizioni geografiche - a letterature considerate minori e a scrittori in lingue acquisite. Insomma, una vera e propria caccia al tesoro che mescola passione, competenza, ironia, coscienza anche etica e politica della missione editoriale e - non guasta mai - uno spirito guascone per il gioco e lo spiazzamento.
Come logo della casa editrice è stato scelto uno scarafaggio a pancia in sù. Impossibile non pensare a Kafka, nume tutelare della casa editrice e della forma-racconto, ma il riferimento più diretto è da cercarsi all'interno del catalogo. A partire dagli scarafaggi che affollano gli appartamenti di "Appunti da un bordello turco" dell'irlandese (ma emigrato in Romania) Philip Ó Ceallaigh per proseguire con quelli che compaiono nel complesso residenziale alla periferia di Bombay in "Lezioni di nuoto" di Mistry, i primi due libri mandati in stampa: entrambi ambientati alla periferia di grandi città (per quanto periferie estramamente diverse) ed entrambi perlopiù incentrati sulla vita di complessi residenzial popolari in cui si respira il profumo acre ma dignitoso di una povertà che si riscatta nella dignità dei suoi protagonisti, nella loro capacità di creare legami ed essere retti, verticali, rispetto ai propri principi. Riuscendo perfino a filosofeggiare di tanto in tanto, nell'atmosfera "in bianco e nero" piena di calcinacci e vodka del primo libro, nell'atmosfera satura di curry e personaggi colorati e singolari nel secondo.
Scarafaggi compaiono a sorpresa anche nel terzo libro pubblicato (e a questo punto è chiaro che gli editori stanno giocando a nascondino con i lettori), "Sono il guardiano del faro" di Éric Faye: libro di racconti metafisici e surreali, sicuramente il più kafkiano dei tre. Faye è un narratore dell'assurdo. Il suo personaggio più ricorrente è un viaggiatore sempre in bilico tra il ricordo delle motivazioni del viaggio e la sua più probabile dimenticanza. Emblematica in tal senso l'apparizione, nel racconto "Il vento delle 6.18", della città fantasma di Taka-Maklan, cancellata dagli orari dei treni e dalle mappe, dove gli abitanti frequentano l'Istituo dell'oblio: "È lì che vecchi, giovani e adulti si recano per seguire i corsi serali, s'impegnano a disimparare, a disingannarsi. Qui la gente persegue la propria desuetudine. I de-studenti ricevono un diploma quando imparano a disfarsi dell'essenziale." Bisogna superare lo scoglio del primissimo racconto, "Mentre viaggia il treno", un'allegoria fin troppo meccanica, per godere delle pagine di Faye. Il meglio sta, oltre che nel racconto ambientato a Taka-Maklan, in "Frontiere" e nel lungo racconto finale che dà il titolo al volume. "Frontiere" è una sorta di variazione del celebre "Sette piani" di Dino Buzzati, in cui un viaggiatore cerca di raggiungere la cima di una muraglia-frontiera, di cui non si vede mai la fine, incontrando nel corso del viaggio altri che prima di lui hanno tentato la stessa impresa e hanno finito per stabilirsi stabilmente sulla muraglia, trasmettendo alle generazioni successive un sogno e un'ambizione di cui non conoscono ormai più il senso. "Sono il guardiano del faro" sembra anch'esso una variazione buzzatiana, sul tema "Il deserto dei tartari", che viene infatti citato all'interno della narrazione: un guardiano si prende cura di un faro perso nelle distese marine, senza alcun territorio da presidiare, fuori da ogni rotta, lontano da ogni pericolo e cancellato via via anche dalle mappe marittime, ricevendo ordini contraddittori dal comando in terraferma e nonostante tutto prendendo estremamente sul serio il proprio compito fino ad identificarsi con esso.
Nel suo svolgere questi apologhi metafisici sul tema dell'alienazione, della solitudine, e dell'assurdo, lo scrittore francese esprime uno sguardo capace, soprattutto in certe iperboli, anche di un umorismo che riscatta il pericolo di una letteratura dell'assurdo fuori tempo massimo; per esempio quando al guardiano del faro viene spedita dalla terraferma una valigetta con tutto l'armamentario dell'agente di spionaggio o quando gli viene installato un telefono a cui però telefonano solo persone che hanno sbagliato numero. È così che, mentre ci fa riflettere sul senso delle nostre esistenze, Faye ci fa anche sorridere di noi stessi e delle nostre illusioni, aggiungendo all'amarezza una salvifica dose di autoironia.
Martino (Biblioteca San Giorgio)
- Ultimo aggiornamento giovedì, 20 luglio 2017
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