Prima che te lo dicano altri
Ci sono due anime in "Prima che te lo dicano altri" di Marino Magliani e tutto il romanzo ruota intorno a un asse, come se queste due anime si guardassero allo specchio. Lo sdoppiamento più evidente è quello spazio-temporale, con una vicenda che si snoda su due piani distanti cinquant'anni e un oceano l'uno dall'altro: prima il 1974 di un’ombrosa e appartata valle ligure di frontiera, poi il 2024 di una Liguria ormai preda degli speculatori e, soprattutto, dell’Argentina su cui ancora si distendono le ombre lunghe del terribile regime dei generali.
Il pitch è semplice e lineare. Negli anni Settanta Leo Vialetti è un bambino timido e povero. Figlio di padre sconosciuto, vive con la madre, ha scarsi risultati scolastici e non brilla per personalità. L'unico a occuparsi di lui è il carismatico argentino Raul Porti, che lo prende sotto le proprie ali, gli offre ripetizioni scolastiche e gli insegna i principi di agronomia, prima di sparire misteriosamente nel nulla. Cinquant'anni dopo di Raul Porti si dice che sia desaparecido in Argentina. Leo Vialetti, ora malinconico bracconiere e raccoglitore d'olive, che nel frattempo ha acquistato la sua villa, attraversa l'Atlantico sulle sue tracce per riempire i vuoti di un mistero con cui non riesce più a convivere.
Oltre che teatro della narrazione, Liguria e Argentina rappresentano due poli esistenziali insieme opposti e complementari, ben rappresentativi anche della stessa vicenda biografica di Magliani: il saldissimo legame identitario con la propria terra e lo spirito di avventura, la vocazione al nomadismo e alla sfida, alla conquista di una patria ulteriore che altro non è se non «il pane quotidiano dove dio lo dà», per citare un grande poeta sudamericano. Senza certamente voler esaurire tutto a un livello di critica psicologica, Leo Valiani è, anche nella fabula, il figlio di queste due anime. Con quanto amore selvaggio cresce sperimentando l'ampiamento dei pochi gesti e delle poche conoscenze ricevute in eredità; con quanto attaccamento a tutti i costi s’impossessa della villa che fu di Porti e con quanta determinazione, pure questa quasi animale, si mette sulle sue tracce dando luce ad anfratti del suo carattere in precedenza non illuminati.
È una finissima partitura simbolica quella che Magliani orchestra con il suo precisissimo e poetico lessico, soprattuto nelle parti in cui scende all'altezza delle caviglie, della terra, con il ritornare, per esempio, del motivo del'innesto, arte che Leo ha appreso dall'argentino. Il romanzo sembra proprio, ad ascoltarlo da vicino, il racconto di molti innesti. Quello tra anime ma anche quello tra lingue (lo spagnolo, il ligure e i diversi registri dell'italiano), quello tra due modi di intendere l'esistenza, in bilico tra la costruzione di un piccolo santuario privato e le tracimanti correnti della Storia; in definitiva, quello tra un altrove e un qui, senza il quale nessun altrove si darebbe.
Si avverte perennemente il doppio palpito di un doppio cuore. E duplice è anche l'andamento ritmico. Da una parte le lunghe attese di un tempo immobile o, se si muove, rovinoso, pagine quasi contemplative nel modello di un idillio sovvertito, arso dalla solitudine, quasi una lente di ingrandimento puntata su un male di vivere tutto ligure, prima ancora sbabariano che montaliano, dei «nati a faticare e a riprodursi». Dall'altra parte, la seconda, il respiro sincopato dell'indagine, di un affannoso frugare dentro il buio, dove è trasmesso il senso di un‘imminenza che si teme terribile, e poi perfino lo scoppio della violenza, per sfociare infine nelle pagine, forse le più belle del libro, in cui i due protagonisti vivono una metafisica sospensione del tempo in un'attesa irreale e potenzialmente letale, persi negli sterminati orizzonti delle pampas.
Un andamento a più tempi, come in una grande sinfonia, dunque, anche se nel bilanciamento generale la prima parte appare dilungarsi forse un poco oltre la misura dell'equilibrio; probablimente perché Magliani si trova talmente a casa dentro la nostalgia della sua terra (che è anche nostalgia di una certa letteratura) da non volerla abbandonare senza averci fatto assaporare con lentezza, in bocca e negli occhi, i più minuti particolari, come lettere e parole di un abecedario sentimentale su cui tutto si edifica.
Prima che te lo dicano altri rilancia Magliani tra le voci forti dei nostri anni, dopo la magnifica traduzione di Sudeste di Haroldo Conti, e conferma il progetto narrativo di Chiarelettere come una delle novità più interessanti dell'editoria italiana degli ultimi tempi.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
-
Ultimo aggiornamento lunedì, 24 dicembre 2018
Inserisci il tuo commento
Commenti
Nessuno ha aggiunto ancora un commento in questa pagina.
Feed RSS per i commenti in questa pagina |
Feed RSS per tutti i commenti
Ci sono due anime in "Prima che te lo dicano altri" di Marino Magliani e tutto il romanzo ruota intorno a un asse, come se queste due anime si guardassero allo specchio. Lo sdoppiamento più evidente è quello spazio-temporale, con una vicenda che si snoda su due piani distanti cinquant'anni e un oceano l'uno dall'altro: prima il 1974 di un’ombrosa e appartata valle ligure di frontiera, poi il 2024 di una Liguria ormai preda degli speculatori e, soprattutto, dell’Argentina su cui ancora si distendono le ombre lunghe del terribile regime dei generali.
Il pitch è semplice e lineare. Negli anni Settanta Leo Vialetti è un bambino timido e povero. Figlio di padre sconosciuto, vive con la madre, ha scarsi risultati scolastici e non brilla per personalità. L'unico a occuparsi di lui è il carismatico argentino Raul Porti, che lo prende sotto le proprie ali, gli offre ripetizioni scolastiche e gli insegna i principi di agronomia, prima di sparire misteriosamente nel nulla. Cinquant'anni dopo di Raul Porti si dice che sia desaparecido in Argentina. Leo Vialetti, ora malinconico bracconiere e raccoglitore d'olive, che nel frattempo ha acquistato la sua villa, attraversa l'Atlantico sulle sue tracce per riempire i vuoti di un mistero con cui non riesce più a convivere.
Oltre che teatro della narrazione, Liguria e Argentina rappresentano due poli esistenziali insieme opposti e complementari, ben rappresentativi anche della stessa vicenda biografica di Magliani: il saldissimo legame identitario con la propria terra e lo spirito di avventura, la vocazione al nomadismo e alla sfida, alla conquista di una patria ulteriore che altro non è se non «il pane quotidiano dove dio lo dà», per citare un grande poeta sudamericano. Senza certamente voler esaurire tutto a un livello di critica psicologica, Leo Valiani è, anche nella fabula, il figlio di queste due anime. Con quanto amore selvaggio cresce sperimentando l'ampiamento dei pochi gesti e delle poche conoscenze ricevute in eredità; con quanto attaccamento a tutti i costi s’impossessa della villa che fu di Porti e con quanta determinazione, pure questa quasi animale, si mette sulle sue tracce dando luce ad anfratti del suo carattere in precedenza non illuminati.
È una finissima partitura simbolica quella che Magliani orchestra con il suo precisissimo e poetico lessico, soprattuto nelle parti in cui scende all'altezza delle caviglie, della terra, con il ritornare, per esempio, del motivo del'innesto, arte che Leo ha appreso dall'argentino. Il romanzo sembra proprio, ad ascoltarlo da vicino, il racconto di molti innesti. Quello tra anime ma anche quello tra lingue (lo spagnolo, il ligure e i diversi registri dell'italiano), quello tra due modi di intendere l'esistenza, in bilico tra la costruzione di un piccolo santuario privato e le tracimanti correnti della Storia; in definitiva, quello tra un altrove e un qui, senza il quale nessun altrove si darebbe.
Si avverte perennemente il doppio palpito di un doppio cuore. E duplice è anche l'andamento ritmico. Da una parte le lunghe attese di un tempo immobile o, se si muove, rovinoso, pagine quasi contemplative nel modello di un idillio sovvertito, arso dalla solitudine, quasi una lente di ingrandimento puntata su un male di vivere tutto ligure, prima ancora sbabariano che montaliano, dei «nati a faticare e a riprodursi». Dall'altra parte, la seconda, il respiro sincopato dell'indagine, di un affannoso frugare dentro il buio, dove è trasmesso il senso di un‘imminenza che si teme terribile, e poi perfino lo scoppio della violenza, per sfociare infine nelle pagine, forse le più belle del libro, in cui i due protagonisti vivono una metafisica sospensione del tempo in un'attesa irreale e potenzialmente letale, persi negli sterminati orizzonti delle pampas.
Un andamento a più tempi, come in una grande sinfonia, dunque, anche se nel bilanciamento generale la prima parte appare dilungarsi forse un poco oltre la misura dell'equilibrio; probablimente perché Magliani si trova talmente a casa dentro la nostalgia della sua terra (che è anche nostalgia di una certa letteratura) da non volerla abbandonare senza averci fatto assaporare con lentezza, in bocca e negli occhi, i più minuti particolari, come lettere e parole di un abecedario sentimentale su cui tutto si edifica.
Prima che te lo dicano altri rilancia Magliani tra le voci forti dei nostri anni, dopo la magnifica traduzione di Sudeste di Haroldo Conti, e conferma il progetto narrativo di Chiarelettere come una delle novità più interessanti dell'editoria italiana degli ultimi tempi.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
- Ultimo aggiornamento lunedì, 24 dicembre 2018
Inserisci il tuo commento
Commenti
Nessuno ha aggiunto ancora un commento in questa pagina.
Feed RSS per i commenti in questa pagina | Feed RSS per tutti i commenti