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Perciò veniamo bene nelle fotografie

 

Pazienza, comunque, pazienza i soldi
l’importante, capisce è muoversi,
agire, risvoltare come un guanto
questo flettersi dentro e poi zitto [ …]:
il ragazzo consegna un certificato che controfirmi e dati ad oggi,
e a saperti disoccupato ufficialmente
non senti, a essere precisi,
un bel niente, se non
un breve normalissimo sgomento.

Francesco Targhetta, classe 1980, assegnista di ricerca presso l’Università di Padova, esordisce nel panorama della narrativa italiana con questo originale e toccante “romanzo in versi” che si colloca a metà tra un romanzo di formazione e un poema epico del quotidiano. Pur muovendo da affermati precedenti letterari (il più prossimo è quello dei Romanzi in versi di Pagliarani), l’autore riesce a pieni voti nell’originale intento di scrivere l’affresco di una generazione, attraverso la forma poetica.
La trama è ben presto detta: il protagonista è un giovane dottorando in storia all’università di Padova che al momento del rinnovo dell’assegno di ricerca si vede sostituito da una collega, Gloria, più scaltra e furba di lui. Cominciano, così, i tentativi di inserimento nel mondo delle scuole attraverso la strettissima via delle supplenze.
Questo evento non è altro che l’espediente letterario per raccontare il malessere di una generazione che, proprio perché immobile, viene ritratta adeguatamente nelle fotografie. Si tratta di una generazione di neo-manager di multinazionali, operatori di call center, giovani universitari che, tra un prosecco e l’altro di sottomarca, in un quartiere della Padova popolare, sentono dentro uno slancio esistenzialista, troppo flebile per poter dar vita a qualcosa di nuovo, troppo perseverante per poter essere ignorato.
La conseguenza è un fluttuare dell’io: e così ci smarriamo con Dario / dietro improbabili fantasie, alla ricerca su Google della propria identità (quando non ti ritrovi in certi giorni […] provi a cercarti su Google), tra la frenesia di cercare un potente faro che possa illuminare il cammino e una resa istintiva all’omologazione del presente. L’unica soluzione sembra essere quella di evitare se stessi, di fuggire dalla propria intimità, cercando altrove, come tenta di fare Los, compagno di strada del protagonista che scappa dall’Italia per fare ricerca in Belgio e per rivendicare prima di tutto la sua esigenza di esistere. Rifugiarsi nell’oblio (spesso alcolico) alla maniera dei poeti maudit o degli scapigliati nostrani, può essere un modo di ribellarsi: tra i versi, e tra le pieghe dell’esistenza, si affaccia anche una purissima disperazione che fa dire al protagonista, che si è visto rifiutare una domanda di indennità di disoccupazione, lo faresti, sì, il ricorso, / confessi a tua madre,/ una sera,/ ma contro la vita intera.

Il grigiore della sconfitta sembra aleggiare su tutta questa generazione, egregiamente descritta da Targhetta, nello stesso titolo del libro Perciò veniamo bene nelle fotografie, perché siamo immobili, incapaci di muoverci , inerti, immortalati in questi bellissimi versi: vedendo le scritte / Saldi, a pois, sulle vetrine delle bigiotterie [...] non si muove nessuno, / qua, / perciò veniamo bene / nelle fotografie.

Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)

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