Mi sa che fuori è primavera
“Per essere felici non ci vuole tanto. Per essere felici non ci vuole quasi niente. Niente, comunque, che non sia già dentro di noi”.
L’ultimo libro di Concita De Gregorio è la versione romanzesca di un fatto di cronaca accaduto a gennaio del 2011: una domenica mattina Mathias, ingegnere svizzero-tedesco ed ex marito di Irina Lucidi, la protagonista del libro, rapisce le loro due gemelle Alessia e Livia e scompare; cinque giorni dopo si suicida facendosi travolgere da un treno in Puglia, lasciando alla ex moglie solo un biglietto: «Le bambine non hanno sofferto, non le vedrai mai più». E infatti Irina non avrà più notizie delle due figlie di appena sei anni, nonostante le ricerche e le indagini (ancora in corso) e l'ampia attenzione dei media.
L'autrice prende spunto da questa vicenda terribile ma premessa fondamentale alla lettura è chiarire che il libro non è un “resoconto” di un fatto di cronaca, bensì un tentativo di dare forma, trovare le parole giuste per raccontare il lutto più feroce che possa colpire un individuo, quello della perdita dei propri figli; una perdita in questo caso ancora più terribile, perché non sono mai stati ritrovati i corpi delle bambine (come dirà la madre stessa: il lutto in assenza del corpo è un’emorragia misteriosa e inarrestabile: […] non arriva mai il giorno in cui si estingue). Il tema profondo dell'opera è capire come affrontare il dolore dopo una tragedia del genere e continuare a vivere.
Mi sa che fuori è primavera ricostruisce la vicenda di Irina, per mezzo di una struttura narrativa frammentata: attraverso le lettere che Irina ha inviato a destinatari diversi (giudici, psicanalisti, familiari) dai toni e registri molto diversi, attraverso gli elenchi che Irina ha redatto per cercare di capire quali fossero le emozioni negative da superare e quali invece le sensazioni che la facevano stare meglio e, infine, nelle parti che testimoniano il confronto diretto tra l'autrice e Irina, in corsivo nel testo (come nella prima pagina del romanzo: Cosa sei venuta a dirmi Irina? Perché hai bussato qui? “Vorrei che mi aiutassi a prendere le parole metterle in fila ricomporre tutti i pezzi”). Una struttura narrativa, dunque, a puzzle, in cui la De Gregorio ricostruisce, tassello dopo tassello, la storia della donna.
Ne emergono numerosi aspetti su cui riflettere e su cui vale la pena soffermarsi.
Il primo è la solitudine di fronte al dolore: Irina è una donna colta, un avvocato, autonoma a livello economico e sociale, non vive nessuna situazione di degrado, eppure viene lasciato sola, completamente. La famiglia del marito, la tata che ha cresciuto le bimbe, lo psicoterapeuta di coppia, le istituzioni, la maestra di scuola delle bambine le riservano solo poche parole di compassione, senza mai andare in fondo, quasi ognuno di loro avesse una piccola verità da nascondere. La solitudine diviene allora non solo una condizione esistenziale, ma anche un guscio, a tratti protettivo, da cui sembra impossibile uscire.
La seconda è che accanto alla solitudine, Irina deve anche subire i pregiudizi della società stessa (è facile affacciarsi nelle vite degli altri, decretare in un quarto d’ora una colpa, rientrare dentro casa e sentirsi a sicuro nel giusto): Irina è una donna italiana (nata a Ascoli Piceno) che lavora come manager in un'azienda tedesca e che viene accusata di non aver saputo accudire le proprie bambine e di non aver saputo fermare (in tempo utile) la follia del marito; fa comodo, allora, alla nostra società liquidare le vicende irrisolte come momenti di pura follia da parte di un individuo, sottintendendo che se la persona (in questo caso il marito) fosse stato “normale” non avrebbe mai compiuto un simile gesto. Resta, quindi, da domandarsi e soprattutto da capire quanta follia e quanta normalità ci siano in ognuno di noi e dove finisca il confine, il crinale che separa queste due paradigmi astratti dell'esistenza.
Un ultimo e determinante punto da mettere in luce è il barlume di speranza che il libro lascia trapelare: Irina ricomincia a ricucire la sua vita, la possibilità di amare ancora si concretizza attraverso la figura di Luis, un uomo dolce (mani lunghe, un mazzo di chiavi del suo appartamento come primo regalo) che ha saputo entrare in punta di piedi in un'esistenza devastata dal dolore. Un amore nuovo, un altro amore, che non toglie niente a tutto il resto, ma «ti sente, ti tiene, ti accompagna, ti toglie lo zaino dalle spalle quando pesa troppo, nella marcia».
Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
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Ultimo aggiornamento lunedì, 9 novembre 2015
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“Per essere felici non ci vuole tanto. Per essere felici non ci vuole quasi niente. Niente, comunque, che non sia già dentro di noi”.
L’ultimo libro di Concita De Gregorio è la versione romanzesca di un fatto di cronaca accaduto a gennaio del 2011: una domenica mattina Mathias, ingegnere svizzero-tedesco ed ex marito di Irina Lucidi, la protagonista del libro, rapisce le loro due gemelle Alessia e Livia e scompare; cinque giorni dopo si suicida facendosi travolgere da un treno in Puglia, lasciando alla ex moglie solo un biglietto: «Le bambine non hanno sofferto, non le vedrai mai più». E infatti Irina non avrà più notizie delle due figlie di appena sei anni, nonostante le ricerche e le indagini (ancora in corso) e l'ampia attenzione dei media.
L'autrice prende spunto da questa vicenda terribile ma premessa fondamentale alla lettura è chiarire che il libro non è un “resoconto” di un fatto di cronaca, bensì un tentativo di dare forma, trovare le parole giuste per raccontare il lutto più feroce che possa colpire un individuo, quello della perdita dei propri figli; una perdita in questo caso ancora più terribile, perché non sono mai stati ritrovati i corpi delle bambine (come dirà la madre stessa: il lutto in assenza del corpo è un’emorragia misteriosa e inarrestabile: […] non arriva mai il giorno in cui si estingue). Il tema profondo dell'opera è capire come affrontare il dolore dopo una tragedia del genere e continuare a vivere.
Mi sa che fuori è primavera ricostruisce la vicenda di Irina, per mezzo di una struttura narrativa frammentata: attraverso le lettere che Irina ha inviato a destinatari diversi (giudici, psicanalisti, familiari) dai toni e registri molto diversi, attraverso gli elenchi che Irina ha redatto per cercare di capire quali fossero le emozioni negative da superare e quali invece le sensazioni che la facevano stare meglio e, infine, nelle parti che testimoniano il confronto diretto tra l'autrice e Irina, in corsivo nel testo (come nella prima pagina del romanzo: Cosa sei venuta a dirmi Irina? Perché hai bussato qui? “Vorrei che mi aiutassi a prendere le parole metterle in fila ricomporre tutti i pezzi”). Una struttura narrativa, dunque, a puzzle, in cui la De Gregorio ricostruisce, tassello dopo tassello, la storia della donna.
Ne emergono numerosi aspetti su cui riflettere e su cui vale la pena soffermarsi.
Il primo è la solitudine di fronte al dolore: Irina è una donna colta, un avvocato, autonoma a livello economico e sociale, non vive nessuna situazione di degrado, eppure viene lasciato sola, completamente. La famiglia del marito, la tata che ha cresciuto le bimbe, lo psicoterapeuta di coppia, le istituzioni, la maestra di scuola delle bambine le riservano solo poche parole di compassione, senza mai andare in fondo, quasi ognuno di loro avesse una piccola verità da nascondere. La solitudine diviene allora non solo una condizione esistenziale, ma anche un guscio, a tratti protettivo, da cui sembra impossibile uscire.
La seconda è che accanto alla solitudine, Irina deve anche subire i pregiudizi della società stessa (è facile affacciarsi nelle vite degli altri, decretare in un quarto d’ora una colpa, rientrare dentro casa e sentirsi a sicuro nel giusto): Irina è una donna italiana (nata a Ascoli Piceno) che lavora come manager in un'azienda tedesca e che viene accusata di non aver saputo accudire le proprie bambine e di non aver saputo fermare (in tempo utile) la follia del marito; fa comodo, allora, alla nostra società liquidare le vicende irrisolte come momenti di pura follia da parte di un individuo, sottintendendo che se la persona (in questo caso il marito) fosse stato “normale” non avrebbe mai compiuto un simile gesto. Resta, quindi, da domandarsi e soprattutto da capire quanta follia e quanta normalità ci siano in ognuno di noi e dove finisca il confine, il crinale che separa queste due paradigmi astratti dell'esistenza.
Un ultimo e determinante punto da mettere in luce è il barlume di speranza che il libro lascia trapelare: Irina ricomincia a ricucire la sua vita, la possibilità di amare ancora si concretizza attraverso la figura di Luis, un uomo dolce (mani lunghe, un mazzo di chiavi del suo appartamento come primo regalo) che ha saputo entrare in punta di piedi in un'esistenza devastata dal dolore. Un amore nuovo, un altro amore, che non toglie niente a tutto il resto, ma «ti sente, ti tiene, ti accompagna, ti toglie lo zaino dalle spalle quando pesa troppo, nella marcia».
Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
- Ultimo aggiornamento lunedì, 9 novembre 2015
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