Mescolo tutto
«Sono carini questi orecchini», dice Chus.
«L’ho scovati in fondo a un cassetto…»
S’avvicina lascivo titillando con punta di lingua il bijoux a forma di cono gelato gusto brillantini incastonati nell’acciaio.
Ho detto, scostandomi dall’avorio dei canini: «Mi dai un pugno?»
«Eh?»
«Ho curiosità nel seguire la direzione del sangue se mi fracassi il setto».
Ride: «Che ti piglia?»
«Valuto che l’atto potrebbe saziarmi brevemente l’animo in travaglio».
«Ma come cazzo parli?»
«Come cazzo mi pare».
La storia narrata in Mescolo tutto non è particolarmente originale. Maria e Chus sono due adolescenti borderline: lei una diciannovenne autolesionista, lui un teppista di periferia. Si incontrano tra i banchi di scuola e instaurano una relazione fatta soprattutto di violenza, verbale e fisica. L’infatuazione si trasforma in breve per Maria in una vera e propria dipendenza amorosa e quando Chus la interrompe, ritirandosi da scuola e negandosi alla ragazza, Maria fugge in un vagabondaggio che la porta a conoscere un gruppo di ragazzi benestanti e viziati che la attraggono in un vortice di party, droghe e sesso estremo.
Yasmin Incretolli, ventiduenne romana al suo esordio fa una cosa da scrittrice vera: prende una storia che poteva apparire banale di disagio e deriva giovanile ai margini di una metropoli e la traforma in qualcosa che meriti di esser messo su carta attraverso l’unico strumento che uno scrittore ha: la lingua. Mescolo tutto rivela infatti un lavoro ammirabile proprio nel modo in cui la vicenda è impastata con una giusta cifra di letteratura (a rendere l’operazione non spontaneistica) e la minima concentrazione di letterarietà (a non renderla un freddo esercizio di sperimentalismo). Lungi dall’essere super sperimentale, come qualcuno l’ha definito, il lavoro sulla lingua che fa la Incretolli è un lavoro prettamente narrativo, mimetico, da scrittore tout court.
La lingua con cui la protagonista racconta in prima persona la vicenda, e che di volta in volta viene quasi assorbita giocosamente (e ironicamente) dai personaggi con cui entra in contatto, è un correlativo oggettivo della diversità di cui Maria è portatrice ed è, allo stesso tempo, capace di innescare una “suspense linguistica” che tiene teso il filo del racconto anche in assenza di suspense narrativa. Una lingua da un lato impoverita di legami sintattici, preposizioni e articoli e dall’altra arricchita di termini desueti, gergalismi, giovanilismi, esotismi, lessico scientifico e specialistico. Una lingua abbassata per un verso e innalzata dall’altro, stirata e deformata. Una lingua mutante, come l’identità della protagonista e di ciò che rappresenta, in cui i sostantivi di provenienza eterogenea appaiono in un panorama di desolazione sintattica come carcasse di civiltà dimenticate.
E qualcosa dovremmo anche dire del sentimento che la protagonista mette in campo, decisivo nel tenere insieme il tutto del romanzo. Un sentimento ormai immerso nell’epoca della fluidità delle relazioni e dei comportamenti, eppure con le radici che affondano in un un eros più tradizionale, segnato dalla “mancanza dell’oggetto del desiderio”: una sensibilità a cavallo tra due epoche, un seme d’altri tempi coltivato in una terra ormai sterile. Per tutto questo nella domanda finale del libro, a cui viene posposto soltanto un corsivo che rimette in scena il primo incontro tra Maria e Chus, chiudendo il cerchio di un tempo a chiusura ermetica, da cui non c’è via d’uscita, risuona qualcosa di ancora più terribile di quanto a prima vista già lo sia.
Ho diciannove anni e voglio morire. È questo diventare adulti?
Ecco, cos’è diventare adulti? Guardare indietro dove ancora c’è qualcosa o guardare avanti dove non si scorge più nulla?
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
Il libro è stato promosso nell'ambito del progetto Bibliodiversità della Biblioteca San Giorgio
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Ultimo aggiornamento venerdì, 28 luglio 2017
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«Sono carini questi orecchini», dice Chus.
«L’ho scovati in fondo a un cassetto…»
S’avvicina lascivo titillando con punta di lingua il bijoux a forma di cono gelato gusto brillantini incastonati nell’acciaio.
Ho detto, scostandomi dall’avorio dei canini: «Mi dai un pugno?»
«Eh?»
«Ho curiosità nel seguire la direzione del sangue se mi fracassi il setto».
Ride: «Che ti piglia?»
«Valuto che l’atto potrebbe saziarmi brevemente l’animo in travaglio».
«Ma come cazzo parli?»
«Come cazzo mi pare».
La storia narrata in Mescolo tutto non è particolarmente originale. Maria e Chus sono due adolescenti borderline: lei una diciannovenne autolesionista, lui un teppista di periferia. Si incontrano tra i banchi di scuola e instaurano una relazione fatta soprattutto di violenza, verbale e fisica. L’infatuazione si trasforma in breve per Maria in una vera e propria dipendenza amorosa e quando Chus la interrompe, ritirandosi da scuola e negandosi alla ragazza, Maria fugge in un vagabondaggio che la porta a conoscere un gruppo di ragazzi benestanti e viziati che la attraggono in un vortice di party, droghe e sesso estremo.
Yasmin Incretolli, ventiduenne romana al suo esordio fa una cosa da scrittrice vera: prende una storia che poteva apparire banale di disagio e deriva giovanile ai margini di una metropoli e la traforma in qualcosa che meriti di esser messo su carta attraverso l’unico strumento che uno scrittore ha: la lingua. Mescolo tutto rivela infatti un lavoro ammirabile proprio nel modo in cui la vicenda è impastata con una giusta cifra di letteratura (a rendere l’operazione non spontaneistica) e la minima concentrazione di letterarietà (a non renderla un freddo esercizio di sperimentalismo). Lungi dall’essere super sperimentale, come qualcuno l’ha definito, il lavoro sulla lingua che fa la Incretolli è un lavoro prettamente narrativo, mimetico, da scrittore tout court.
La lingua con cui la protagonista racconta in prima persona la vicenda, e che di volta in volta viene quasi assorbita giocosamente (e ironicamente) dai personaggi con cui entra in contatto, è un correlativo oggettivo della diversità di cui Maria è portatrice ed è, allo stesso tempo, capace di innescare una “suspense linguistica” che tiene teso il filo del racconto anche in assenza di suspense narrativa. Una lingua da un lato impoverita di legami sintattici, preposizioni e articoli e dall’altra arricchita di termini desueti, gergalismi, giovanilismi, esotismi, lessico scientifico e specialistico. Una lingua abbassata per un verso e innalzata dall’altro, stirata e deformata. Una lingua mutante, come l’identità della protagonista e di ciò che rappresenta, in cui i sostantivi di provenienza eterogenea appaiono in un panorama di desolazione sintattica come carcasse di civiltà dimenticate.
E qualcosa dovremmo anche dire del sentimento che la protagonista mette in campo, decisivo nel tenere insieme il tutto del romanzo. Un sentimento ormai immerso nell’epoca della fluidità delle relazioni e dei comportamenti, eppure con le radici che affondano in un un eros più tradizionale, segnato dalla “mancanza dell’oggetto del desiderio”: una sensibilità a cavallo tra due epoche, un seme d’altri tempi coltivato in una terra ormai sterile. Per tutto questo nella domanda finale del libro, a cui viene posposto soltanto un corsivo che rimette in scena il primo incontro tra Maria e Chus, chiudendo il cerchio di un tempo a chiusura ermetica, da cui non c’è via d’uscita, risuona qualcosa di ancora più terribile di quanto a prima vista già lo sia.
Ho diciannove anni e voglio morire. È questo diventare adulti?
Ecco, cos’è diventare adulti? Guardare indietro dove ancora c’è qualcosa o guardare avanti dove non si scorge più nulla?
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
Il libro è stato promosso nell'ambito del progetto Bibliodiversità della Biblioteca San Giorgio
- Ultimo aggiornamento venerdì, 28 luglio 2017
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