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La prima verità

C’è un mondo, una serie di fatti accaduti nel tempo, un mondo fatto di vite vissute e perdute; molte vite di cui non si sa nulla, di cui non si serbano ricordi, da nessuna parte. Vite non raccontate. C’è un mondo e un tempo in cui sono accadute cose terribili, e quel mondo è poco fa, e quel mondo è anche adesso. Un mondo fatto di luoghi chiusi, di mura alte, di celle, di polsi legati ai letti, di urla furibonde e più furibondi silenzi, di contenzione e torture, di cure sbagliate, di incompetenza, di poco amore, di poca pazienza, di vesti strappate e sotterranei, di sporcizia e abbandoni. Il mondo di chi è nato matto, di chi è diventato matto, di chi è passato per matto, di chi non è stato capito; il tempo e il mondo dei manicomi lager e della barbarie, di posti come Leros. Leros che è un’isola e il suo mare, Leros che al suo interno ha avuto un’altra isola, una fortezza tanto vicina all’acqua quanto perduta. Questa è la premessa, ma forse sono soltanto i miei pensieri, pensieri accumulati durante la lettura del bellissimo romanzo di Simona Vinci; forse sono sensazioni, piccole lacerazioni, forse sono cicatrici, perché "La prima verità" ne lascia qualcuna.

Il romanzo è diviso in quattro parti, ognuna di queste è collocata in un diverso periodo di tempo, ma come in un viaggio si attraversano una dopo l’altra, si intersecano, si rincorrono e si spiegano a vicenda. Nella prima parte incontriamo Angela, italiana che sbarca a Leros insieme a un gruppo di volontari, è il 1992. Angela è curiosa, solitaria e sensibile, è spinta da una grande forza ma anche da un tormento che viene da lontano. È una persona intelligente e sensibile, che si sconvolge davanti all’orrore e che cerca di comprendere. Perché non si affronta nulla se prima non si capisce cosa accade e cosa è accaduto. Angela aprirà una porta e la stanza che c’è dietro quella porta le rivelerà, notte dopo notte, nomi, storie, fatti, numeri, orrori, parole. Angela con fatica ricostruisce, è presa dallo sgomento ma continua a cercare, a domandare. Angela scopre che a Leros, durante il periodo della dittatura dei colonnelli, ci finirono anche i dissidenti politici e che solo apparentemente stavano divisi – nella struttura – dai matti. Dissidenti torturati e brutalizzati. Come te lo spieghi l’orrore? Come lo racconti?

Simona Vinci non nasconde nulla. Ma allo stesso tempo compie una specie di miracolo narrativo porgendo al lettore tutto con estrema sensibilità. Angela è un bellissimo personaggio, ma ancora più belli e indimenticabili sono quelli che scopriremo con lei e facendo avanti e indietro nel tempo. Basil, Nikolaos, Teresa e Stefanos, tre pazzi e un dissidente, tre disadattati e un poeta, quattro disadatti. Le loro storie si incroceranno a Leros, in uno scenario di dolore e di profonda tenerezza. Attraverso le loro vite, Vinci traccia una straordinaria mappa della comunicazione emotiva, laddove nessuno cerca di comunicare e quindi di farsi capire e quindi di capire. Stefanos, personaggio ispirato al grande poeta greco Ghiannis Ritsos (il titolo del libro è un suo verso) e allo scrittore Stefano Tassinari (scomparso quattro anni fa), finito a Leros perché dissidente politico, non smette mai di scrivere le sue poesie, e quelle poesie diventano parte di un codice, che si completa con Nikolaos, il ragazzino che tiene un sasso in bocca e che ha scelto di non parlare mai più, ma che quelle poesie sa leggere, e con Teresa che quelle poesie sa ascoltare e imparare a memoria. Il legame tra i tre è fortissimo e unico, è indissolubile. In quel codice entrerà anche Basil, che sarà in qualche modo testimone e custode.

Questi quattro straordinari protagonisti vengono da passati completamente diversi; eccetto Stefanos che è prigioniero per ragioni politiche, Basil, Teresa e Nikolaos, arrivano da passati terribili, fatti di abbandono, incomprensione, violenza fisica e morale. Arriveranno a noi e ad Angela come vengono i fantasmi e le storie, a poco a poco e di colpo e non ci lasceranno più. La particolarità di questo libro è quello di essere romanzo e memoir allo stesso tempo – un modo di raccontare sempre più presente tra gli scrittori più interessanti e bravi; basti pensare a Lerner, a Ernaux, a Carrère, a De Majo -, Vinci entra in prima persona nel romanzo e ci porta a Budrio, nella sua infanzia e adolescenza, ci parla dei suoi matti, di storie vere e inventate, di sua madre. Ci racconta della bellissima Evelina. Ci porta a Freetown, in Sierra Leone, ai giorni nostri, e ancora ragazzi incatenati ai letti. Tutti questi matti si parlano nel tempo, si somigliano, si perdono e ritornano. Simona Vinci ci racconta le persone, ce le racconta tutte, partendo dall’orrore ci spiega quello che dovremmo sapere, che la normalità non esiste, perché normale non significa niente. Conta quello che capiamo delle nostre paure e degli altri, conta un po’ di fortuna, conta molto l’amore. Ci ricorda, poi, che questi personaggi seppur inventati sono tutti esistiti, è esistito quell’orrore, quel doloroso abbandono.

 Le parole dei pazzi sono magiche. Le parole dei pazzi sono sempre false e sono la cosa più vera di tutte.

 

Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)

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