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La memoria degli Uffizi

 

Francesco Cataluccio, scrittore e studioso di cultura polacca e mitteleuropea, ripercorre con la memoria la sua giovinezza, dedicando questo interessante saggio a uno dei musei più visitati al mondo, nonché museo principale di Firenze.

La prima pagina del libro si apre con la rievocazione della visita in età infantile agli Uffizi, insieme ai genitori e al fratello. Era il rito laico della domenica mattina che precedeva quello pagano del pomeriggio alle partite di calcio della Fiorentina, nello stadio di Campo di Marte. Nonostante l’età infantile, i due fratelli venivano così avviati alla conoscenza della storia dell’arte: ogni domenica mattina la madre durante la colazione anticipava loro cosa avrebbero visto, aggiungendo aneddoti e curiosità (alcune inventate) che avrebbero reso più piacevole la visita. A dare un’idea dei pittori che avrebbero visto, venivano in aiuto alcuni brani delle celebri Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani del Vasari, testo che rimane la principale fonte di informazioni sull’arte italiana dalla metà del XIII alla metà del XVI secolo, che i loro genitori leggevano a brandelli la sera qua e là, stando ben attenti a semplificare, a musicare la lingua, a rendere il tutto un’operazione avvincente.

Del resto, come sosteneva il celebre storico dell’arte Ernst H. Gombrich, “la storia dell’arte per i bambini non esiste: non credo che i bambini debbano esser costretti a guardare qualcosa, sono contrario a questo. I bambini riescono a interessarsi agli aneddoti narrati dalle immagini: solo quanto si va svolgendo, solo un’azione illustrata li attrae davvero e li avvince in tutta spontaneità”. Su questo humus culturale poggiano le fondamenta le visite domenicali e, in seguito, gli approfondimenti che Cataluccio decide di dedicare agli Uffizi, “un maniacale concentrato di storia dell’arte”, come li definì Giorgio Manganelli.

Ne fuori esce fuori un libro di agile lettura, che si colloca a metà tra il memoriale e una guida al museo, capace di intrecciare i percorsi conoscitivi calati nel tempo dalla vita dell’autore con la celebre raccolta museale. Il testo, infatti, pur attenendosi con cura storica e ricchezza di riferimenti bibliografici alla progressione delle sale del museo, si colora qua e là con particolari appartenenti al vissuto dell’autore. Per esempio l’inquietudine per la mancanza di ombre nelle figure delle tavole del Duecento e Trecento – “chi non ha ombra non ha materia e non esiste” – si prolunga nella testa dell’autore bambino fino allo stadio dove andava a vedere le partite notturne: anche i calciatori sotto le luci incrociate dei riflettori non proiettavano ombre, ma svolazzavano immateriali sul campo, come gli angeli e i santi dei dipinti medievali. Da adulto questa fantasia sulle ombre avrebbe fatto incontrare a Cataluccio il celebre saggio di Gombrich Ombre. La rappresentazione dell'ombra portata nell'arte occidentale, Einaudi.

Si incontrano così narrazioni personali complesse, dove le stanze degli Uffizi sono anche stanze interiori, del proprio vissuto, in cui si intrecciano storia, immaginazione, conoscenza e senso civico. E se Cataluccio nella prima parte del testo è capace di riannodare le fila della sua memoria personale e familiare al museo degli Uffizi, nell’ultima parte discorre della galleria con uno sguardo allargato e collettivo: “Questa galleria è un risarcimento estetico nella sovente brutta precarietà del mondo. Ti fa sentire con i piedi saldi nella bellezza e nella storia.” Proprio camminando nelle sale del museo e costruendo un percorso personale di visita (rifuggendo dal bisogno di vedere tutto e in poco tempo) è possibile accedere a quella “lentezza dello sguardo”, capace di cogliere tutti i particolari di un dipinto o di una scultura e, metaforicamente, di scoprire significati reconditi della nostra vita immaginaria o reale.

Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)

 

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