La luce smeraldo nell'aria
Era l’ora in cui cominciavano a sfolgorare le luci dei palazzi e dei grandi magazzini. Pozze luminose si spandevano dalle soglie dei negozi, attraversate da gente in maschera, non solo bambini ma anche adulti, dirette alle feste per Halloween o nei bar. Stephen avanzò deciso contro una corrente di fantasmi, pirati e infermiere sexy dal regno degli spiriti. Passò davanti a una Marilyn Monroe distrutta, ma non riusciva più a vedere Alice in lontananza. Con mano tremante prese il Valium dalla tasca del cappotto, aprì il coperchio e se ne versò due. Gliene servivano una o due? Era la stessa domanda che aveva fatto a Alice, alla tavola calda.
Sono delle piccole gemme questi racconti di Donald Antrim, inizialmente pubblicati sul New Yorker, e qui tradotti meravigliosamente da Cristiana Mennella. "La luce smeraldo nell’aria" (che è anche il titolo di un racconto) è il titolo perfetto per questa raccolta. Perché proprio di una particolare luce si tratta, una luce di un colore splendente che con l’aria si fonde e che ci fa respirare. Alla fine di ogni storia noi quella luce la vediamo e ne facciamo parte, quasi senza rendercene conto. Antrim ci prende per mano e parola dopo parola ci porta a respirarla. Donald Antrim, di cui va ricordato il bellissimo "La vita dopo", un memoir, un viaggio nella propria storia personale dopo la morte della madre, un viaggio complicatissimo e bellissimo dentro la psiche, è uno degli scrittori nordamericani più interessanti, più bravi di questi anni. Questi racconti sono di un livello altissimo, in alcuni momenti ricordano quelli di George Saunders per la capacità di commuovere, in altri quelli di Carver per l’assenza di cinismo. Le somiglianze, però, sono soprattutto emotive, Antrim scrive come se stesso. Non ricordo altri racconti letti di recente che rendano così bene il senso di precarietà dell’essere umano, l’incapacità di portare a termine la più semplice delle azioni senza che questa sfiori il ridicolo. Antrim inserisce frammenti della storia personale di un personaggio, mentre questi non riesce nemmeno a procurarsi una sigaretta a una festa a New York, o come il meraviglioso depresso che prova a comprare dei fiori alla moglie e non ci riesce perché si perde, perché è disperato, perché non sa come fare, perché ha tradito, perché è stato tradito e non lo sa, perché tenta un corteggiamento goffo con la fioraia. Per ogni fiore che aggiunge, Antrim ci mostra tutta la fragilità dell’uomo, la sua fine, il suo stare in bilico, il non sapersi relazionare con gli altri. Ce lo mostra dopo, distrutto e quasi eroico, quando a piedi fugge per le strade di New York, con il mazzo di fiori che ha rubato, mentre barcolla, quando arriva al ristorante dove lo aspettano sua moglie e la coppia di amici (di cui sono o sono stati amanti), e c’è il pianto e c’è il conforto, ma solo temporaneo. New York sta a guardare e accompagna, e noi con lei. Antrim ci fa guardare le vite per quello che sono, e quindi ci mostra quello che siamo e che saremo. E con loro ci racconta – soprattutto – New York, in tutta la sua bellezza, la sua luce straordinaria, l’Hudson, gli appartamenti minuscoli e quelli lussuosi, i bar e le feste. E le camminate, tutti vanno a piedi, ogni passo ci dice qualcosa del luogo, del tempo e del personaggio.
C’è una dose consistente di compassione in Antrim. I personaggi sono come degli acrobati, ma non corrono il pericolo di cadere, perché sono già caduti, perché non avvertono il pericolo della caduta, perché hanno perso qualcuno, quasi sempre andato via. Tutti bevono, tutti prendono pastiglie, calmanti, antidepressivi. Quegli alcolici, quei medicinali sono parti fondamentali del racconto, sono funzionali all’azione principale. Chi si ubriaca o si imbottisce di pasticche, non lo fa perché è disperato o fragile, lo fa perché quel modo di comportarsi è il proprio. La disperazione c’è già, il conforto verrà, ma non dal Valium. Il Valium è una consuetudine, è il modo di raccontare l’ansia e la paura di perdersi di una coppia che non riesce nemmeno a fare shopping, per i traumi che si portano addosso, per la loro grande paura. O le pasticche di un uomo che rischia di finire in un torrente mentre cerca di liberarsi dei ricordi della donna che lo ha lasciato; pasticche che non prende che regala, come se fossero una carezza, a una donna malata. Sarà lui a vedere quella luce smeraldo nell’aria, in un momento altissimo di narrativa.
Antrim scrive in maniera pulitissima, è ricco senza eccedere, non ha bisogno di enfasi. Se uno trema noi lo vediamo, ce lo mette davanti agli occhi, senza usare la parola tremito. Se una donna abbraccia, noi abbracciamo con lei. I racconti finiscono con le vite che continuano in qualche modo. Quale sarà il modo ci è stato mostrato dallo scrittore nelle pagine che abbiamo letto, e quel modo non è uno solo, perché le vite vanno come vanno in Virginia o a New York. In un bar di una piccola stazione o sulla Broadway.
Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)
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Ultimo aggiornamento lunedì, 7 novembre 2016
Era l’ora in cui cominciavano a sfolgorare le luci dei palazzi e dei grandi magazzini. Pozze luminose si spandevano dalle soglie dei negozi, attraversate da gente in maschera, non solo bambini ma anche adulti, dirette alle feste per Halloween o nei bar. Stephen avanzò deciso contro una corrente di fantasmi, pirati e infermiere sexy dal regno degli spiriti. Passò davanti a una Marilyn Monroe distrutta, ma non riusciva più a vedere Alice in lontananza. Con mano tremante prese il Valium dalla tasca del cappotto, aprì il coperchio e se ne versò due. Gliene servivano una o due? Era la stessa domanda che aveva fatto a Alice, alla tavola calda.
Sono delle piccole gemme questi racconti di Donald Antrim, inizialmente pubblicati sul New Yorker, e qui tradotti meravigliosamente da Cristiana Mennella. "La luce smeraldo nell’aria" (che è anche il titolo di un racconto) è il titolo perfetto per questa raccolta. Perché proprio di una particolare luce si tratta, una luce di un colore splendente che con l’aria si fonde e che ci fa respirare. Alla fine di ogni storia noi quella luce la vediamo e ne facciamo parte, quasi senza rendercene conto. Antrim ci prende per mano e parola dopo parola ci porta a respirarla. Donald Antrim, di cui va ricordato il bellissimo "La vita dopo", un memoir, un viaggio nella propria storia personale dopo la morte della madre, un viaggio complicatissimo e bellissimo dentro la psiche, è uno degli scrittori nordamericani più interessanti, più bravi di questi anni. Questi racconti sono di un livello altissimo, in alcuni momenti ricordano quelli di George Saunders per la capacità di commuovere, in altri quelli di Carver per l’assenza di cinismo. Le somiglianze, però, sono soprattutto emotive, Antrim scrive come se stesso. Non ricordo altri racconti letti di recente che rendano così bene il senso di precarietà dell’essere umano, l’incapacità di portare a termine la più semplice delle azioni senza che questa sfiori il ridicolo. Antrim inserisce frammenti della storia personale di un personaggio, mentre questi non riesce nemmeno a procurarsi una sigaretta a una festa a New York, o come il meraviglioso depresso che prova a comprare dei fiori alla moglie e non ci riesce perché si perde, perché è disperato, perché non sa come fare, perché ha tradito, perché è stato tradito e non lo sa, perché tenta un corteggiamento goffo con la fioraia. Per ogni fiore che aggiunge, Antrim ci mostra tutta la fragilità dell’uomo, la sua fine, il suo stare in bilico, il non sapersi relazionare con gli altri. Ce lo mostra dopo, distrutto e quasi eroico, quando a piedi fugge per le strade di New York, con il mazzo di fiori che ha rubato, mentre barcolla, quando arriva al ristorante dove lo aspettano sua moglie e la coppia di amici (di cui sono o sono stati amanti), e c’è il pianto e c’è il conforto, ma solo temporaneo. New York sta a guardare e accompagna, e noi con lei. Antrim ci fa guardare le vite per quello che sono, e quindi ci mostra quello che siamo e che saremo. E con loro ci racconta – soprattutto – New York, in tutta la sua bellezza, la sua luce straordinaria, l’Hudson, gli appartamenti minuscoli e quelli lussuosi, i bar e le feste. E le camminate, tutti vanno a piedi, ogni passo ci dice qualcosa del luogo, del tempo e del personaggio.
C’è una dose consistente di compassione in Antrim. I personaggi sono come degli acrobati, ma non corrono il pericolo di cadere, perché sono già caduti, perché non avvertono il pericolo della caduta, perché hanno perso qualcuno, quasi sempre andato via. Tutti bevono, tutti prendono pastiglie, calmanti, antidepressivi. Quegli alcolici, quei medicinali sono parti fondamentali del racconto, sono funzionali all’azione principale. Chi si ubriaca o si imbottisce di pasticche, non lo fa perché è disperato o fragile, lo fa perché quel modo di comportarsi è il proprio. La disperazione c’è già, il conforto verrà, ma non dal Valium. Il Valium è una consuetudine, è il modo di raccontare l’ansia e la paura di perdersi di una coppia che non riesce nemmeno a fare shopping, per i traumi che si portano addosso, per la loro grande paura. O le pasticche di un uomo che rischia di finire in un torrente mentre cerca di liberarsi dei ricordi della donna che lo ha lasciato; pasticche che non prende che regala, come se fossero una carezza, a una donna malata. Sarà lui a vedere quella luce smeraldo nell’aria, in un momento altissimo di narrativa.
Antrim scrive in maniera pulitissima, è ricco senza eccedere, non ha bisogno di enfasi. Se uno trema noi lo vediamo, ce lo mette davanti agli occhi, senza usare la parola tremito. Se una donna abbraccia, noi abbracciamo con lei. I racconti finiscono con le vite che continuano in qualche modo. Quale sarà il modo ci è stato mostrato dallo scrittore nelle pagine che abbiamo letto, e quel modo non è uno solo, perché le vite vanno come vanno in Virginia o a New York. In un bar di una piccola stazione o sulla Broadway.
Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)
- Ultimo aggiornamento lunedì, 7 novembre 2016