La fine dei vandalismi
"La fine dei vandalismi" di Tom Drury
Bisognerà domandarsi seriamente perché ci piacciano i romanzi nei quali non accade praticamente nulla. Romanzi, cioè, che raccontano piccole storie, eventi che si susseguono mai troppo diversi l’uno dall’altro nelle vite dei protagonisti. Il nulla, perciò, non è letterale ma situazionale. Bisognerà domandarci perché ci appassioniamo così tanto a un dialogo fatto di frasi smozzicate, che avviene davanti a una birra, perché dovrebbero piacerci due tizi che vivono in una contea di quattro case che parlano di vacche, o perché dovrebbe farci antipatia o simpatia (a seconda dei momenti) una vecchia capace d’ironia e di precario modo di rapportarsi ai figli, oppure come mai dovremmo restare lì impalati con il libro in mano, facendo avanti e indietro su una frase detta da uno che sta per chiudere il negozio, per fallimento, perché quel fallimento ci pare sopportabile, perché ci ricorda i nostri. Domandarci, inoltre, perché non potremmo fare a meno delle grandi città, delle nostre metropolitane, e allo stesso tempo ci piacciono quei due che se ne vanno a pescare al lago, un lago che quasi sicuramente d’inverno ghiaccerà.
Chi legge le mie recensioni sa che un certo tipo di narrativa nordamericana è da me particolarmente amata. La narrativa della staticità, dei lunghi silenzi, dei tormenti vissuti sottotraccia, delle vecchie cucine, della puzza di vacche e cavalli, la narrativa che attraversa gran parte del territorio degli Usa, la parte centrale principalmente, e quindi il Midwest, della Holt di Kent Haruf, dei romanzi di John Williams, dell’Ohio di Sherwood Anderson, fino ad arrivare alle frontiere di Cormac McCarthy, al Texas, all’Arizona. Sento miei certi luoghi, riconosco subito l’atteggiamento dei personaggi. Ho capito che certe case di legno e pietra, certi fienili, alcune strette di mano, le manifestazioni di antipatia o di solidarietà sono per me una sorta di riparo. Datemi un luogo in cui non vivrei mai e mettetelo un romanzo. Datemi le sigarette che non ho mai fumato, datemi l’ubriacone che non sono mai stato. Fatemi leggere di donne e uomini disperati, fategli trovare conforto. Fatemi commuovere davanti a una nevicata o un timido bacio. Portatemi, infine, a mietere il grano in una novella di Carson McCullers.
Questo nulla che ci appassiona è semplicemente il tutto in cui non abbiamo mai vissuto, lo spazio dentro il quale non ci siamo mai potuti muovere. Non pensavo di essere pronto per un altro romanzo di questo tipo ma poi è arrivato Tom Drury con La fine dei vandalismi e tutto è ricominciato da capo.
In tv davano un telefilm poliziesco; Louise trovò un grosso difetto nella trama, Mary prese un bicchiere di latte e si accomodò sul divano. Durante un’interruzione pubblicitaria, Louise fissò l’orologio appeso alla parete e si voltò verso la madre. «Pensi davvero che io sia così isolata?» domandò. Mary la guardò inespressiva, come toccata da qualcosa di profondo. Andò in anticamera, e dal buio si rivolse a Louise. «Sono tornata a casa senza il bastone» disse.
Questo passaggio che ho sottolineato (insieme a un’altra quarantina) si trova a pag. 37, perciò all’inizio; Louise e Mary sono madre e figlia e sono due protagoniste del romanzo. Questa scena ci dice molto della scrittura di Drury e del libro che stiamo leggendo, di ciò che troveremo. Madre e figlia in una situazione domestica, un dialogo breve, il classico bicchiere di latte, e quella domanda lì in mezzo che Louise rivolge alla madre, domanda collegata a qualcosa che Mary deve averle detto, domanda che presa così ci fa pensare a una donna che sta da sola, che forse crede di starci bene, ma non è così che la vedono gli altri. Non è così che la pensa Mary, che “toccata da qualcosa di profondo”, eccolo il talento di Drury, non sa (non vuole rispondere), fa per andarsene e dice una cosa che pare non c’entrare niente ma che c’entra eccome «Sono tornata a casa senza il bastone» è una perfetta rappresentazione di un’idea di vita solitaria ben presente nel cuore delle persone anziane. Questo è Tom Drury.
Pareva quasi che avessero camminato come sonnambuli verso il declino della loro comunità
Ci troviamo nella contea di Grouse County, paesini, fattorie, poche case, strade poco battute, tutti si conoscono, quasi nessuno si odia, se si detesta qualcuno ci si limita a una battuta. Il buon senso la fa da padrone, chi vive qui sa governare l’attesa; è in grado di gestire uno scatto di rabbia, una rissa o un bacio improvviso con la stessa calma, sospeso tra l’avvedutezza e la disillusione. Viene in mente il Pagliarani de La ragazza Carla (ultima edizione Il Saggiatore) quando scrive “Chi c’è nato vicino a questi posti / non gli passa neppure per la mente / come è utile averci un’abitudine”; con la differenza che i personaggi di Drury pare lo sappiano quanto sia utile avercela un’abitudine. E di questo ne fanno una forza. La calma del quotidiano, il ripetersi delle vite e delle poche cose che accadono dà la forza per reagire quando tutto crolla, quando il vento cambia.
I presenti prendevano appunti, stropicciandosi pensierosi il mento, e Tiny si sentì solo come non mai. La donna dai capelli corti si era spostata in un altro banco. Se la immaginò mentre tornava a casa, forse alla guida di una Trans Am, in un appartamento all'interno di un bel palazzo di Stone City. Se la figurò con un gatto, in vestaglia e ciabattine, con una fila di dischi sullo scaffale. Per quel che lo riguardava, avrebbe potuto abitare su Marte.
Louise divorzia da Tiny, un poco di buono ma non cattivo, un perdente, forse, ma indimenticabile, e si innamora di Dan, lo sceriffo, l’uomo saggio; si sposeranno. Intorno a questi tre, Mary e altri pochi personaggi ruota un romanzo che mi è caro, molto caro.
Drury prende le vite di queste persone e ce le consegna piano piano, di dialogo in dialogo, di battuta in battuta, regalandoci istanti solari e attimi di profonda commozione. Ogni tanto la vita pare sfuggire di mano, ogni tanto tutto pare perduto. E ci si può perdere, e pagine avanti ritrovarsi. Si può assistere a ridicole discussioni in un consiglio comunale, piangere con una donna alla quale mai verrà dato il figlio che vorrebbe in adozione, seguire Tiny nelle sue fughe nei suoi ritorni, nella sua disperazione e nella forza – strana – di ricominciare pur avendo un peso sul cuore. Una ferita. Drury sa farci sorridere con le battute taglienti di Mary e poi commuovere davanti alla morte e ai difficili tentativi di rinascita.
I colori erano vividi e veri, ma in qualche modo loro due sentivano che stavano osservando il panorama senza più riuscire a farne parte.
Questo è Tom Drury e mi pare che La fine dei vandalismi sia la storia di una speranza che viene e che va, che pare sparire davanti a un incendio, davanti ai brutti sogni, davanti ai silenzi, e che poi ritorna davanti a un binario, a una birra stappata, a una fioritura. E non so se ho dato risposta alla domanda iniziale, ma non è poi così importante, è più importante che leggiate questo libro. Molte volte dei libri belli si dice “Ti ci perdi in quelle pagine”; beh, in queste ti ci ritrovi e non vorresti andartene.
Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)
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Ultimo aggiornamento martedì, 30 gennaio 2024
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"La fine dei vandalismi" di Tom Drury
Bisognerà domandarsi seriamente perché ci piacciano i romanzi nei quali non accade praticamente nulla. Romanzi, cioè, che raccontano piccole storie, eventi che si susseguono mai troppo diversi l’uno dall’altro nelle vite dei protagonisti. Il nulla, perciò, non è letterale ma situazionale. Bisognerà domandarci perché ci appassioniamo così tanto a un dialogo fatto di frasi smozzicate, che avviene davanti a una birra, perché dovrebbero piacerci due tizi che vivono in una contea di quattro case che parlano di vacche, o perché dovrebbe farci antipatia o simpatia (a seconda dei momenti) una vecchia capace d’ironia e di precario modo di rapportarsi ai figli, oppure come mai dovremmo restare lì impalati con il libro in mano, facendo avanti e indietro su una frase detta da uno che sta per chiudere il negozio, per fallimento, perché quel fallimento ci pare sopportabile, perché ci ricorda i nostri. Domandarci, inoltre, perché non potremmo fare a meno delle grandi città, delle nostre metropolitane, e allo stesso tempo ci piacciono quei due che se ne vanno a pescare al lago, un lago che quasi sicuramente d’inverno ghiaccerà.
Chi legge le mie recensioni sa che un certo tipo di narrativa nordamericana è da me particolarmente amata. La narrativa della staticità, dei lunghi silenzi, dei tormenti vissuti sottotraccia, delle vecchie cucine, della puzza di vacche e cavalli, la narrativa che attraversa gran parte del territorio degli Usa, la parte centrale principalmente, e quindi il Midwest, della Holt di Kent Haruf, dei romanzi di John Williams, dell’Ohio di Sherwood Anderson, fino ad arrivare alle frontiere di Cormac McCarthy, al Texas, all’Arizona. Sento miei certi luoghi, riconosco subito l’atteggiamento dei personaggi. Ho capito che certe case di legno e pietra, certi fienili, alcune strette di mano, le manifestazioni di antipatia o di solidarietà sono per me una sorta di riparo. Datemi un luogo in cui non vivrei mai e mettetelo un romanzo. Datemi le sigarette che non ho mai fumato, datemi l’ubriacone che non sono mai stato. Fatemi leggere di donne e uomini disperati, fategli trovare conforto. Fatemi commuovere davanti a una nevicata o un timido bacio. Portatemi, infine, a mietere il grano in una novella di Carson McCullers.
Questo nulla che ci appassiona è semplicemente il tutto in cui non abbiamo mai vissuto, lo spazio dentro il quale non ci siamo mai potuti muovere. Non pensavo di essere pronto per un altro romanzo di questo tipo ma poi è arrivato Tom Drury con La fine dei vandalismi e tutto è ricominciato da capo.
In tv davano un telefilm poliziesco; Louise trovò un grosso difetto nella trama, Mary prese un bicchiere di latte e si accomodò sul divano. Durante un’interruzione pubblicitaria, Louise fissò l’orologio appeso alla parete e si voltò verso la madre. «Pensi davvero che io sia così isolata?» domandò. Mary la guardò inespressiva, come toccata da qualcosa di profondo. Andò in anticamera, e dal buio si rivolse a Louise. «Sono tornata a casa senza il bastone» disse.
Questo passaggio che ho sottolineato (insieme a un’altra quarantina) si trova a pag. 37, perciò all’inizio; Louise e Mary sono madre e figlia e sono due protagoniste del romanzo. Questa scena ci dice molto della scrittura di Drury e del libro che stiamo leggendo, di ciò che troveremo. Madre e figlia in una situazione domestica, un dialogo breve, il classico bicchiere di latte, e quella domanda lì in mezzo che Louise rivolge alla madre, domanda collegata a qualcosa che Mary deve averle detto, domanda che presa così ci fa pensare a una donna che sta da sola, che forse crede di starci bene, ma non è così che la vedono gli altri. Non è così che la pensa Mary, che “toccata da qualcosa di profondo”, eccolo il talento di Drury, non sa (non vuole rispondere), fa per andarsene e dice una cosa che pare non c’entrare niente ma che c’entra eccome «Sono tornata a casa senza il bastone» è una perfetta rappresentazione di un’idea di vita solitaria ben presente nel cuore delle persone anziane. Questo è Tom Drury.
Pareva quasi che avessero camminato come sonnambuli verso il declino della loro comunità
Ci troviamo nella contea di Grouse County, paesini, fattorie, poche case, strade poco battute, tutti si conoscono, quasi nessuno si odia, se si detesta qualcuno ci si limita a una battuta. Il buon senso la fa da padrone, chi vive qui sa governare l’attesa; è in grado di gestire uno scatto di rabbia, una rissa o un bacio improvviso con la stessa calma, sospeso tra l’avvedutezza e la disillusione. Viene in mente il Pagliarani de La ragazza Carla (ultima edizione Il Saggiatore) quando scrive “Chi c’è nato vicino a questi posti / non gli passa neppure per la mente / come è utile averci un’abitudine”; con la differenza che i personaggi di Drury pare lo sappiano quanto sia utile avercela un’abitudine. E di questo ne fanno una forza. La calma del quotidiano, il ripetersi delle vite e delle poche cose che accadono dà la forza per reagire quando tutto crolla, quando il vento cambia.
I presenti prendevano appunti, stropicciandosi pensierosi il mento, e Tiny si sentì solo come non mai. La donna dai capelli corti si era spostata in un altro banco. Se la immaginò mentre tornava a casa, forse alla guida di una Trans Am, in un appartamento all'interno di un bel palazzo di Stone City. Se la figurò con un gatto, in vestaglia e ciabattine, con una fila di dischi sullo scaffale. Per quel che lo riguardava, avrebbe potuto abitare su Marte.
Louise divorzia da Tiny, un poco di buono ma non cattivo, un perdente, forse, ma indimenticabile, e si innamora di Dan, lo sceriffo, l’uomo saggio; si sposeranno. Intorno a questi tre, Mary e altri pochi personaggi ruota un romanzo che mi è caro, molto caro.
Drury prende le vite di queste persone e ce le consegna piano piano, di dialogo in dialogo, di battuta in battuta, regalandoci istanti solari e attimi di profonda commozione. Ogni tanto la vita pare sfuggire di mano, ogni tanto tutto pare perduto. E ci si può perdere, e pagine avanti ritrovarsi. Si può assistere a ridicole discussioni in un consiglio comunale, piangere con una donna alla quale mai verrà dato il figlio che vorrebbe in adozione, seguire Tiny nelle sue fughe nei suoi ritorni, nella sua disperazione e nella forza – strana – di ricominciare pur avendo un peso sul cuore. Una ferita. Drury sa farci sorridere con le battute taglienti di Mary e poi commuovere davanti alla morte e ai difficili tentativi di rinascita.
I colori erano vividi e veri, ma in qualche modo loro due sentivano che stavano osservando il panorama senza più riuscire a farne parte.
Questo è Tom Drury e mi pare che La fine dei vandalismi sia la storia di una speranza che viene e che va, che pare sparire davanti a un incendio, davanti ai brutti sogni, davanti ai silenzi, e che poi ritorna davanti a un binario, a una birra stappata, a una fioritura. E non so se ho dato risposta alla domanda iniziale, ma non è poi così importante, è più importante che leggiate questo libro. Molte volte dei libri belli si dice “Ti ci perdi in quelle pagine”; beh, in queste ti ci ritrovi e non vorresti andartene.
Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)
- Ultimo aggiornamento martedì, 30 gennaio 2024
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