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L'avversario

L'avversario è un libro agghiacciante. Carrère mette a punto qui un sistema narrativo di indagine e restituzione che tesaurizzerà soprattutto nel successivo e celebratissimo Limonov ma che già a quest'altezza è chirurgico, freddo e tagliente come una ghigliottina.

La storia vera su cui il libro si innesta, col suo tentativo prometeico di maneggiare con gli strumenti della comprensione umana il fuoco del male assoluto, è quella di Jean-Claude Roman: uomo quieto e pacifico, apparentemente un padre di famiglia perfetto, che nel gennaio del 1993 uccise la propria moglie, i propri due figli e i propri genitori e dette fuoco alla propria abitazione dopo aver mentito, a loro e a l'intera comunità di amici e conoscenti per tutta la propria vita, fingendo di lavorare come alto ricercatore per l'OMS di Ginevra, quando in verità non aveva mai nemmeno superato gli esami del secondo anno di studi in medicina. Incarichi di prestigio, stipendi di alto livello, premi di produzione, viaggi di lavoro, fama e stima internazionale… tutto inventato e costruito con maniacale esattezza. In verità Roland per diciotto anni passa ogni giorno a passeggiare da solo nei boschi, a guardare la tv in anonime camere d’albergo, senza nemmeno aver niente di inconfessabile da nascondere, per poi tornare a casa, dai familiari e dagli amici a rivestire il ruolo di padre borghese perfetto. Un giorno dopo l’altro per ben diciotto anni, fino all’esplosione della follia omicida.

La vicenda sconvolse tutta la Francia ed ebbe un ritorno di fiamma nella discussione pubblica intorno al 2000 proprio grazie al libro di Carrère e all’omonimo film con Daniel Auteil che Nicole Garcia ne trasse (vedi), e che fu in concorso al Festival di Cannes 2002, preceduto l’anno prima da un altro film ispirato, questo direttamente, alla storia di Jean-Claude Roman: A tempo pieno di Laurent Cantet.

È inevitabile tracciare un legame tra L'avversario e A sangue freddo di Truman Capote, forse il capostipite dei romanzi-reportage, ispirato a un analogo fatto di cronaca americana degli anni Cinquanta. Carrère però, pur condividendo con Capote la scelta dell’oggettività, a differenza del predecessore, è privo di qualsiasi cinismo e di qualsiasi freddo distacco, assolutamente lontano da ogni intento scandalistico. Anzi, la volontà di scavare nell’anima del pluriomicida, porta lo scrittore a una vera e propria discesa degli inferi personali e collettivi, attraverso un confronto serrato con le confessioni e i ragionamenti di Roland, condotto prima attraverso una fitta corrispondenza di cui il libro offre un resoconto, quindi attraverso le cronache del processo e poi attraverso gli incontri con lui stesso, in carcere, e con quelli che erano stati tra i suoi migliori amici. Ne viene fuori una scansione terribile di verità e menzogne, un marchingegno a orologeria in cui se gli esiti sono assolutamente parossisistici, i graduali passaggi guardano e riguardano da vicino la quotidianità di molte persone più o meno ordinarie, in bilico tra l’essere e il voler essere, tra la violenza delle aspettative proprie e altrui e la fragilità della propria identità, minata dal desiderio di non voler deludere quelle aspettative.

Così dietro le azioni di un uomo che svuota progressivamente la propria vita di verità fino a mutarsi in un puro vuoto, in un sembiante senza anima, inizialmente in modo del tutto inoffensivo e anzi in un certo senso per "buona educazione", fino a sfociare nella più terribile delle violenze, oltre ogni limite e oltre ogni umanità, sentiamo risuonare i più profondi e inestricabili interrogativi che l’uomo pone a se stesso, anche attraverso la letteratura:, "chi sono? chi voglio essere?". Guardare l'altro, nella sua irriducibile differenza, fosse anche un mostro, e vedersi riflessi, ben oltre le più o meno consolatorie autorappresentazioni che abbiamo di noi stessi: questa la lezione terribile e perturbante di ogni libro di Carrère che, forse, qui più che altrove, trova la sua massima manifestazione.

Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)

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