Il posto
La storia di un uomo - prima contadino, poi operaio, infine gestore di un bar-drogheria in una città della provincia normanna - raccontata con precisione chirurgica, senza compatimenti né miserabilismi, dalla figlia scrittrice. La storia di una donna che si affranca con dolorosa tenerezza dalle proprie origini e scrive dei suoi genitori alla ricerca di un ormai impossibile linguaggio comune. Così narra la scheda editoriale di questo bel romanzo, la cui edizione in lingua originale risale a più di trent’anni fa (1983) e pubblicato solo nel 2014 da L’Orma editore, grazie al notevole lavoro di Lorenzo Flabbi, traduttore ed editore.
"Il Posto" non è solo un’identità geografica, il paese del nord della Francia che fa da contorno alla vicenda, ma anche (e perdonate il calembour) la posta in palio nel gioco di ruolo che va via via crescendo tra la posizione sociale del padre (con tutta la Storia che si porta dietro e dentro) e quella a cui inevitabilmente tende la figlia, nata e cresciuta in un momento storico in cui la società si smarca sempre di più e con una velocità incalzante e feroce da tutto ciò che è provincia. Ecco quindi il bisogno di definire i contorni di una separazione e dare un ruolo e il posto giusto al dolore; quello rabbioso di una separazione culturale e quello profondo della separazione sensoriale, affettiva, corporea, per sfuggire definitivamente, come figlia ma anche come scrittrice da quella paura ancestrale, generazionale del trovarsi “fuori posto” e assolversi così dalla colpa di un tradimento culturale e sociale nei confronti della figura paterna, colpa a cui solo la scrittura, attraverso un necessario “scollocamento” può dare un senso di sollievo (come ci dice Genet).
Il libro nasce necessariamente autobiografico ma la continuità narrativa si frantuma e apre finestre continue sul presente, sul lettore, nel bisogno quasi ossessivo di giustificare le scelte semantiche e di rassicurarsi attraverso una scrittura lucida, quasi cinica del non cadere mai nella possibilità del bluff e dell’interpretazione là dove la memoria falla e si accettano con consapevolezza le imprecisioni sfumate dei ricordi che inevitabilmente contornano e arricchiscono questa epica famigliare. Non è un caso che la narrazione esordisca con l’accenno al dubbio quasi demotivante nel porre temporalmente il rapporto tra due eventi così importanti e così dolorosi nella loro contraddittorietà (il funerale del padre e il concorso per l’insegnamento), ma il dubbio si risolve solo attraverso un linguaggio assolutamente puro, scevro da ogni possibilità di accenno al sentimento, alla nostalgia e al giudizio e l’aspetto biografico rimane impermeabile. granitico.
Un libro sulla memoria non può tuttavia non fare i conti con Proust e Annie Ernaux non se lo dimentica e anzi lo cita almeno due volte, rimarcando nel corso della narrazione la sua imperativa necessità e convinzione di dover definire sempre e comunque con dignità il limite tra ciò che è memoria e ciò che diventa fiction. Lo scrivere di povertà e di ignoranza, non è mai un espediente estetico come in certe caratterizzazioni proustiane o come nella narrazione cinematografica (l’episodio della carne coi vermi che su ripeterà, perché “…non è la corazzata Potemkin.”) ma è la chiave necessaria, se priva di alcuna autocommiserazione o lettura ironica dei limiti culturali e grammaticali paterni, per riuscire a definire quella lotta impari di una generazione contro una società che troppo velocemente prende distanze siderali dalla rassicurante immutabilità della tradizione (il pranzo dopo il funerale, per esempio), delle abitudini e del rimanere legati a quella condizione di semi ignoranza per cui da un momento storico in poi non è più un alibi l’indistinzione tra il parlare e l’agire, ma la presa d’atto di ritrovarsi in un “posto” di assoluta e palese inferiorità; la prima grande dolorosa frattura tra una generazione cresciuta relazionandosi attraverso il dialetto e un linguaggio di sopravvivenza e chi vede nella padronanza del linguaggio e della grammatica una conferma dell’appartenere ad una classe diversa: – ogni volta che qualcuno mi ha parlato di lui, la narrazione cominciava sempre con “non sapeva né leggere né scrivere”, come se la sua vita e il suo carattere non potessero comprendersi che alla luce di questo dato. Questo lo scrive a proposito della figura del nonno, ma è una caratterizzazione necessaria, per trovare una radice da poter rivelare, che non diventa giustificazione, ma consapevolezza.
La bellezza di questo libro sta proprio in quella che non esito a definire un’architettura funzionalista delle frasi dove la pulizia disincantata della scrittura, non è solo cronaca ma è un atto di rispetto, verso la storia di un uomo visto attraverso gli occhi di una figlia e non compare mai la ricerca di un motivo per cui assolversi così come non c’è alcuna ricerca consolatoria in una narrazione precisa, dove la stessa lingua paterna, non viene derisa, ma consapevolmente accettata come necessaria, in quanto lingua delle origini. Ma il Posto da cui la si contempla diventa l’accettazione dolorosa e irreversibile di una condizione diversa e distante.
Jacopo Ninni (con la collaborazione di Poetarum Silva)
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Ultimo aggiornamento giovedì, 7 maggio 2015
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La storia di un uomo - prima contadino, poi operaio, infine gestore di un bar-drogheria in una città della provincia normanna - raccontata con precisione chirurgica, senza compatimenti né miserabilismi, dalla figlia scrittrice. La storia di una donna che si affranca con dolorosa tenerezza dalle proprie origini e scrive dei suoi genitori alla ricerca di un ormai impossibile linguaggio comune. Così narra la scheda editoriale di questo bel romanzo, la cui edizione in lingua originale risale a più di trent’anni fa (1983) e pubblicato solo nel 2014 da L’Orma editore, grazie al notevole lavoro di Lorenzo Flabbi, traduttore ed editore.
"Il Posto" non è solo un’identità geografica, il paese del nord della Francia che fa da contorno alla vicenda, ma anche (e perdonate il calembour) la posta in palio nel gioco di ruolo che va via via crescendo tra la posizione sociale del padre (con tutta la Storia che si porta dietro e dentro) e quella a cui inevitabilmente tende la figlia, nata e cresciuta in un momento storico in cui la società si smarca sempre di più e con una velocità incalzante e feroce da tutto ciò che è provincia. Ecco quindi il bisogno di definire i contorni di una separazione e dare un ruolo e il posto giusto al dolore; quello rabbioso di una separazione culturale e quello profondo della separazione sensoriale, affettiva, corporea, per sfuggire definitivamente, come figlia ma anche come scrittrice da quella paura ancestrale, generazionale del trovarsi “fuori posto” e assolversi così dalla colpa di un tradimento culturale e sociale nei confronti della figura paterna, colpa a cui solo la scrittura, attraverso un necessario “scollocamento” può dare un senso di sollievo (come ci dice Genet).
Il libro nasce necessariamente autobiografico ma la continuità narrativa si frantuma e apre finestre continue sul presente, sul lettore, nel bisogno quasi ossessivo di giustificare le scelte semantiche e di rassicurarsi attraverso una scrittura lucida, quasi cinica del non cadere mai nella possibilità del bluff e dell’interpretazione là dove la memoria falla e si accettano con consapevolezza le imprecisioni sfumate dei ricordi che inevitabilmente contornano e arricchiscono questa epica famigliare. Non è un caso che la narrazione esordisca con l’accenno al dubbio quasi demotivante nel porre temporalmente il rapporto tra due eventi così importanti e così dolorosi nella loro contraddittorietà (il funerale del padre e il concorso per l’insegnamento), ma il dubbio si risolve solo attraverso un linguaggio assolutamente puro, scevro da ogni possibilità di accenno al sentimento, alla nostalgia e al giudizio e l’aspetto biografico rimane impermeabile. granitico.
Un libro sulla memoria non può tuttavia non fare i conti con Proust e Annie Ernaux non se lo dimentica e anzi lo cita almeno due volte, rimarcando nel corso della narrazione la sua imperativa necessità e convinzione di dover definire sempre e comunque con dignità il limite tra ciò che è memoria e ciò che diventa fiction. Lo scrivere di povertà e di ignoranza, non è mai un espediente estetico come in certe caratterizzazioni proustiane o come nella narrazione cinematografica (l’episodio della carne coi vermi che su ripeterà, perché “…non è la corazzata Potemkin.”) ma è la chiave necessaria, se priva di alcuna autocommiserazione o lettura ironica dei limiti culturali e grammaticali paterni, per riuscire a definire quella lotta impari di una generazione contro una società che troppo velocemente prende distanze siderali dalla rassicurante immutabilità della tradizione (il pranzo dopo il funerale, per esempio), delle abitudini e del rimanere legati a quella condizione di semi ignoranza per cui da un momento storico in poi non è più un alibi l’indistinzione tra il parlare e l’agire, ma la presa d’atto di ritrovarsi in un “posto” di assoluta e palese inferiorità; la prima grande dolorosa frattura tra una generazione cresciuta relazionandosi attraverso il dialetto e un linguaggio di sopravvivenza e chi vede nella padronanza del linguaggio e della grammatica una conferma dell’appartenere ad una classe diversa: – ogni volta che qualcuno mi ha parlato di lui, la narrazione cominciava sempre con “non sapeva né leggere né scrivere”, come se la sua vita e il suo carattere non potessero comprendersi che alla luce di questo dato. Questo lo scrive a proposito della figura del nonno, ma è una caratterizzazione necessaria, per trovare una radice da poter rivelare, che non diventa giustificazione, ma consapevolezza.
La bellezza di questo libro sta proprio in quella che non esito a definire un’architettura funzionalista delle frasi dove la pulizia disincantata della scrittura, non è solo cronaca ma è un atto di rispetto, verso la storia di un uomo visto attraverso gli occhi di una figlia e non compare mai la ricerca di un motivo per cui assolversi così come non c’è alcuna ricerca consolatoria in una narrazione precisa, dove la stessa lingua paterna, non viene derisa, ma consapevolmente accettata come necessaria, in quanto lingua delle origini. Ma il Posto da cui la si contempla diventa l’accettazione dolorosa e irreversibile di una condizione diversa e distante.
Jacopo Ninni (con la collaborazione di Poetarum Silva)
- Ultimo aggiornamento giovedì, 7 maggio 2015
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