Il grande regno dell'emergenza
Tre figli partecipano al funerale del padre indossando delle maschere di animali per rispettare le sue ultime volontà; un quarto partecipa da lontano intrecciando una fitta corrispondenza con uno dei tre fratelli. L'espediente narrativo grottesco permette di raccontare con efficacia e senza retorica il delicato equilibrio di relazioni e rapporti familiari che di fatto costituisce l'universo dei protagonisti, definendoli in relazione alla figura paterna e tra di loro.
Questa la sintesi di "I nostri oggetti paterni", il racconto iniziale della raccolta, ripreso dall'immagine della copertina, e basterebbe questo racconto d'esordio per rendere conto delle particolari qualità della scrittura di Alessandro Raveggi, che riunisce qui una decina di prose scritte tra il 2009 e il 201.
Colpisce infatti, data la frammentarietà delle occasioni da cui i diversi racconti sono originati, la compattezza della raccolta, caratterizzata da una solidità stilistica e da una esemplare chiarezza e pervicacia nelle scelte di “poetica”, a partire dal tema della catastrofe, che era al centro anche del precedente romanzo “Nella vasca dei terribili piranha”.
Una catastrofe a cui ci sentiamo vicini in ogni pagina del libro, grazie a una qualità perturbante che risiede tutta nella scrittura. Lo sguardo che si muove in questo libro sembra infatti perlopiù funzionare come una sorta di straniamento rovesciato. Se lo straniamento è una tecnica narrativa assimilabile a una vista “da fuori”, per cui un comportamento, osservato senza empatia e da un punto di vista esterno, assume sensi inediti, alienanti e perturbanti, in Raveggi invece il perturbamento – che è la cifra principale di tutta la raccolta – viene perseguito da vicino, da vicinissimo, spesso da dentro, inserendo nella narrazione elementi che non appartengono all'ordine consueto delle cose ma che però ci offrono una chiave più profonda di conoscenza della realtà, secondo un processo analogico più che logico.
Uno sviante gioco ironico delle distanze si alterna a talune identificazioni tra autore e personaggi, tanto che viene spesso da chiederci se questi personaggi - per lo più uomini e donne in una condizione di "transito esitenziale" - rappresentino più un altro o più un alter-ego di chi scrive (ma l'equilibrio è talmente ben calibrato da non permettere alcuna facile risposta). A volte lo straniamento è affidato a piccoli spostamenti che inclinano il racconto verso toni surreali o umoristici, a volte all'apparizione di elementi innaturali o illogici (come l'espediente delle maschere ma anche quello della frequente animalizzazione o reificazione degli umani o, viceversa, l'antropomorfizzazione degli oggetti). Ne viene fuori una sorta di realismo deformato dalla realtà stessa, che vuol parlare attraverso queste deformazioni.
Altre volte ancora lo spostamento perturbante è tutto nella lingua, in un modo di raccontare che non è quasi mai piano e lineare ma nemmeno ha le cifre usurate di uno sperimentalismo di una ricerca d'avanguardia fuori tempo. Si avverte la ricorrenza di giacimenti diversi, magari legati alle tre diverse radici della vita di Raveggi, che è nato e cresciuto in Italia, ha vissuto quattro anni in Messico sposando una donna messicana e insegna in istituzioni universitarie americane. Lui stesso ama dire con lieve umorismo di sé: "Amo in spagnolo, insegno in inglese, scrivo in italiano". Ne derivano dissonanze sia a livello lessicale sia sintattico, anche qui con una evidente alternanza delle distanze e anche dei registri, dal popolare e gergale all'uso di esotismi, tecnicismi e perfino neologismi.
In questo modo sia raccontando vicende apparentemente minime (come il semplice transito di un personaggio in un aeroporto, in Il curatore volante), sia episodi grotteschi (come quello di un ristorante toscano in America in cui piatti preparati dallo chef parlano in vernacolo toscano, in "L'eloquente menu di Tribeca") o drammatici (come l'episodio di un padre che fugge in auto col proprio figlio da una minaccia che si chiarisce solo alla fine del racconto "Vuole portarti via"), resta fermo accanto a noi lo spettro del pericolo della catastrofe incombente, ma incombente – sembra di poter dire- soprattutto perché invisibilmente inscritta dentro la natura del tempo che stiamo vivendo. Ed è proprio a questo qualcosa di invisibile che mira la penna di Raveggi, forse. Per farci provare quanto siano vere le due frasi messe ad epigrafe dell'intera raccolta: “Giorni di catastrofi sono tutti i giorni in cui non succede nulla” (Italo Calvino) e “L'uomo è un abominevole mammifero che si pettina” (César Vallejo); non un semplice omaggio a due suoi numi tutelari ma un oriente e un occidente di questa narrazione, che anche quando storce il ghigno nel liberare o trattenere una risata, tra l'ironico e il sarcastico, resta sempre profondamente malinconica.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
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Ultimo aggiornamento lunedì, 10 ottobre 2016
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Tre figli partecipano al funerale del padre indossando delle maschere di animali per rispettare le sue ultime volontà; un quarto partecipa da lontano intrecciando una fitta corrispondenza con uno dei tre fratelli. L'espediente narrativo grottesco permette di raccontare con efficacia e senza retorica il delicato equilibrio di relazioni e rapporti familiari che di fatto costituisce l'universo dei protagonisti, definendoli in relazione alla figura paterna e tra di loro.
Questa la sintesi di "I nostri oggetti paterni", il racconto iniziale della raccolta, ripreso dall'immagine della copertina, e basterebbe questo racconto d'esordio per rendere conto delle particolari qualità della scrittura di Alessandro Raveggi, che riunisce qui una decina di prose scritte tra il 2009 e il 201.
Colpisce infatti, data la frammentarietà delle occasioni da cui i diversi racconti sono originati, la compattezza della raccolta, caratterizzata da una solidità stilistica e da una esemplare chiarezza e pervicacia nelle scelte di “poetica”, a partire dal tema della catastrofe, che era al centro anche del precedente romanzo “Nella vasca dei terribili piranha”.
Una catastrofe a cui ci sentiamo vicini in ogni pagina del libro, grazie a una qualità perturbante che risiede tutta nella scrittura. Lo sguardo che si muove in questo libro sembra infatti perlopiù funzionare come una sorta di straniamento rovesciato. Se lo straniamento è una tecnica narrativa assimilabile a una vista “da fuori”, per cui un comportamento, osservato senza empatia e da un punto di vista esterno, assume sensi inediti, alienanti e perturbanti, in Raveggi invece il perturbamento – che è la cifra principale di tutta la raccolta – viene perseguito da vicino, da vicinissimo, spesso da dentro, inserendo nella narrazione elementi che non appartengono all'ordine consueto delle cose ma che però ci offrono una chiave più profonda di conoscenza della realtà, secondo un processo analogico più che logico.
Uno sviante gioco ironico delle distanze si alterna a talune identificazioni tra autore e personaggi, tanto che viene spesso da chiederci se questi personaggi - per lo più uomini e donne in una condizione di "transito esitenziale" - rappresentino più un altro o più un alter-ego di chi scrive (ma l'equilibrio è talmente ben calibrato da non permettere alcuna facile risposta). A volte lo straniamento è affidato a piccoli spostamenti che inclinano il racconto verso toni surreali o umoristici, a volte all'apparizione di elementi innaturali o illogici (come l'espediente delle maschere ma anche quello della frequente animalizzazione o reificazione degli umani o, viceversa, l'antropomorfizzazione degli oggetti). Ne viene fuori una sorta di realismo deformato dalla realtà stessa, che vuol parlare attraverso queste deformazioni.
Altre volte ancora lo spostamento perturbante è tutto nella lingua, in un modo di raccontare che non è quasi mai piano e lineare ma nemmeno ha le cifre usurate di uno sperimentalismo di una ricerca d'avanguardia fuori tempo. Si avverte la ricorrenza di giacimenti diversi, magari legati alle tre diverse radici della vita di Raveggi, che è nato e cresciuto in Italia, ha vissuto quattro anni in Messico sposando una donna messicana e insegna in istituzioni universitarie americane. Lui stesso ama dire con lieve umorismo di sé: "Amo in spagnolo, insegno in inglese, scrivo in italiano". Ne derivano dissonanze sia a livello lessicale sia sintattico, anche qui con una evidente alternanza delle distanze e anche dei registri, dal popolare e gergale all'uso di esotismi, tecnicismi e perfino neologismi.
In questo modo sia raccontando vicende apparentemente minime (come il semplice transito di un personaggio in un aeroporto, in Il curatore volante), sia episodi grotteschi (come quello di un ristorante toscano in America in cui piatti preparati dallo chef parlano in vernacolo toscano, in "L'eloquente menu di Tribeca") o drammatici (come l'episodio di un padre che fugge in auto col proprio figlio da una minaccia che si chiarisce solo alla fine del racconto "Vuole portarti via"), resta fermo accanto a noi lo spettro del pericolo della catastrofe incombente, ma incombente – sembra di poter dire- soprattutto perché invisibilmente inscritta dentro la natura del tempo che stiamo vivendo. Ed è proprio a questo qualcosa di invisibile che mira la penna di Raveggi, forse. Per farci provare quanto siano vere le due frasi messe ad epigrafe dell'intera raccolta: “Giorni di catastrofi sono tutti i giorni in cui non succede nulla” (Italo Calvino) e “L'uomo è un abominevole mammifero che si pettina” (César Vallejo); non un semplice omaggio a due suoi numi tutelari ma un oriente e un occidente di questa narrazione, che anche quando storce il ghigno nel liberare o trattenere una risata, tra l'ironico e il sarcastico, resta sempre profondamente malinconica.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
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