Il digiuno natalizio
Il poeta russo Sergej Zav’jalov vince il Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari 2016, che si svolge quest’anno con grande significato a conclusione della Festa della Toscana. La sua poesia è come un grande manifesto in difesa dei diritti civili di ogni nazione oppressa, in ogni tempo e spazio. Come scrive nella “Piero Bigongiari Lecture 2016”, Fissare gli occhi impassibili della disgrazia – che si sarebbe potuto tradurre anche come “Scrutare gli occhi fissi della disgrazia” in ricordo dei famosi versi di Pescia Lucca (in Le mura di Pistoia): «la morte è questa / occhiata fissa / ai tuoi cortili» – le domande di fondo che il poeta deve porsi sono queste: «può il poeta (e fin dove) parlare a nome degli altri, a nome di coloro che non hanno lingua per parlare? Fino a che punto il suo trauma glielo concede? Fino a che punto lo permette l’abisso culturale e di classe?».
La poesia si trasforma in un codice, tragicamente sempre imperfetto, per recuperare le informazioni di una civiltà perduta, dove, per “civiltà”, si intende non soltanto una identità di popolo ma anche di diritti civili messi a compromesso, una identità di traumi e di drammi. Zav’jalov proviene da una famiglia di mordvini, popolazione stanziata sul medio Volga: gli antenati dei mordvini – tribù ugro-finniche – si stanziarono tra i fiumi Volga, Oka e Sura nella seconda metà del primo millennio a.C., ma nel 1552 le terre mordvine furono definitivamente annesse allo stato russo. L’essere membro di una etnia piccola ma con la sua precisa identità, di un popolo con le proprie tradizioni dentro la grande Russia, è cruciale nella sua produzione poetica.
La poesia di Zav’jalov si muove tra il primitivismo della tradizione del suo popolo e l’epica, l’affermazione di un’esistenza e le grandi, incessanti lotte della storia russa fatte di conquiste faticose, fra rivoluzioni e involuzioni. Zav’jalov si fa ponte tra passato e presente attraverso una poesia fatta di fratture sintattiche, semantiche e grammaticali che rivelano la frammentarietà del mondo. Il senso tragico della frattura, dello staccarsi, dello scollegarsi pur facendo parte di un gigante si può cogliere nel carattere quasi di reperto, di frammento delle sue liriche, nello sfumarsi, perdere i margini, farsi stele di Rosetta della sua poesia. Ucraina, Cecenia, Russia, la dissoluzione della lingua mordvina e l’assimilazione forzata del popolo mordvino diventano come dei continenti alla deriva, fra resistenze e sopraffazioni, terrore e ricordo. Ci sono territori ancora poco conosciuti nella storia dei popoli e nella stessa poesia. Zav’jalov, che ora vive in Europa, da lontano, con il suo sguardo «impassibile» che può abbracciare l’intero continente ex sovietico, colma questa grande lacuna.
Paolo Fabrizio Iacuzzi (poeta e critico)
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Ultimo aggiornamento lunedì, 7 marzo 2016
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Il poeta russo Sergej Zav’jalov vince il Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari 2016, che si svolge quest’anno con grande significato a conclusione della Festa della Toscana. La sua poesia è come un grande manifesto in difesa dei diritti civili di ogni nazione oppressa, in ogni tempo e spazio. Come scrive nella “Piero Bigongiari Lecture 2016”, Fissare gli occhi impassibili della disgrazia – che si sarebbe potuto tradurre anche come “Scrutare gli occhi fissi della disgrazia” in ricordo dei famosi versi di Pescia Lucca (in Le mura di Pistoia): «la morte è questa / occhiata fissa / ai tuoi cortili» – le domande di fondo che il poeta deve porsi sono queste: «può il poeta (e fin dove) parlare a nome degli altri, a nome di coloro che non hanno lingua per parlare? Fino a che punto il suo trauma glielo concede? Fino a che punto lo permette l’abisso culturale e di classe?».
La poesia si trasforma in un codice, tragicamente sempre imperfetto, per recuperare le informazioni di una civiltà perduta, dove, per “civiltà”, si intende non soltanto una identità di popolo ma anche di diritti civili messi a compromesso, una identità di traumi e di drammi. Zav’jalov proviene da una famiglia di mordvini, popolazione stanziata sul medio Volga: gli antenati dei mordvini – tribù ugro-finniche – si stanziarono tra i fiumi Volga, Oka e Sura nella seconda metà del primo millennio a.C., ma nel 1552 le terre mordvine furono definitivamente annesse allo stato russo. L’essere membro di una etnia piccola ma con la sua precisa identità, di un popolo con le proprie tradizioni dentro la grande Russia, è cruciale nella sua produzione poetica.
La poesia di Zav’jalov si muove tra il primitivismo della tradizione del suo popolo e l’epica, l’affermazione di un’esistenza e le grandi, incessanti lotte della storia russa fatte di conquiste faticose, fra rivoluzioni e involuzioni. Zav’jalov si fa ponte tra passato e presente attraverso una poesia fatta di fratture sintattiche, semantiche e grammaticali che rivelano la frammentarietà del mondo. Il senso tragico della frattura, dello staccarsi, dello scollegarsi pur facendo parte di un gigante si può cogliere nel carattere quasi di reperto, di frammento delle sue liriche, nello sfumarsi, perdere i margini, farsi stele di Rosetta della sua poesia. Ucraina, Cecenia, Russia, la dissoluzione della lingua mordvina e l’assimilazione forzata del popolo mordvino diventano come dei continenti alla deriva, fra resistenze e sopraffazioni, terrore e ricordo. Ci sono territori ancora poco conosciuti nella storia dei popoli e nella stessa poesia. Zav’jalov, che ora vive in Europa, da lontano, con il suo sguardo «impassibile» che può abbracciare l’intero continente ex sovietico, colma questa grande lacuna.
Paolo Fabrizio Iacuzzi (poeta e critico)
- Ultimo aggiornamento lunedì, 7 marzo 2016
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