Il cinghiale che uccise Liberty Valance
"Il cinghiale che uccise Liberty Valance" di Giordano Meacci
È tutto un abisso di dèmoni privati, la scoperta degli altri
Una cosa va detta subito e riguarda le due possibili strade da percorrere per leggere Il cinghiale che uccise Liberty Valance; nessuna delle due strade è una scorciatoia, entrambe arrivano al cuore del libro, quale delle due scegliere è compito del lettore. La prima strada è quella della concentrazione, la seconda è quella dell’abbandono. Io ho scelto, anche se non immediatamente, la strada dell’abbandono, tenendo presente che i due percorsi si sfioreranno e si incroceranno più volte nel romanzo di Meacci; è dalla strada dell’abbandono che ve lo racconterò. Cosa intendiamo per abbandono? Nel nostro caso, intendiamo lasciarsi andare, assecondare il flusso di frasi, pensieri, situazioni, luoghi, personaggi e le loro microstorie, che l’autore ha immaginato e costruito. Paradossalmente, per abbandonarsi a un libro come questo bisogna essere molto presenti, particolarmente disposti all’ascolto. Per questo motivo l’abbandono è soltanto una forma diversa di concentrazione, ma particolare, una concentrazione che non ricorre soltanto alla memoria, al pensiero, al ragionamento, ma che è pronta a liberarsi, ad accogliere, a lasciare che la storia entri e a entrarci; a far sì – infine – che ogni ragione viaggi insieme a una accelerazione (o a un rallentamento) del battito del cuore. Scelta la strada, potremo farci travolgere, facilmente, dal ritmo di Giordano Meacci che viene da molte musiche, ma da una sola bellissima armonia.
Amedeo ha creduto, allora, crede che sia possibile una felicità senza rispetto. Un ganglio chimico del tempo in cui non si prevede, o si aspetta, semplicemente c’è, e coincide con il presente. Crede che un istante di pienezza possa dilatarsi, e conservarsi, come non esistesse nient’altro di così significativo, e totalizzante, in tutta la congerie di universi che ci sìbilano intorno e ci condizionano.
Il romanzo è ambientato a Corsignano, un paese immaginario, che sta tra le province di Siena e Perugia. Un paese dell’Italia centrale come tanti: le case, le cascine, le botteghe, il bosco, gli alberi, i bar, gli animali – e quindi i cinghiali -, i vecchi, i ragazzi, le donne e gli uomini, la gente. Persone che si conoscono tutte e da sempre. Grandi amori e rimpianti, grandi amicizie, ricordi, memorie tessute da tanti passati comuni. Poi, perdoni, amori e amori mancati, pettegolezzi, silenzi, discorsi profondi e altre storie. Ci sarà un uomo che ha cambiato idea il giorno del matrimonio e la mancata sposa che di quell’abito (in un passaggio del libro di rara bellezza), dopo averlo scucito, farà tendine della cucina e tovaglia della domenica. Ci saranno due sorelle che si prostituiscono per una vera ragione d’amore, amore totale che provano l’una per l’altra. Famiglie, dopotutto, formate e divise, annunciate o mancate. I nomi e le persone che quei nomi portano: Andrea, Bella, Amedeo, Oscar, Walter, Fabrizio, Agnese, Alighiero, Bice, Durante – La Sonia. E poi Apperbohr che è nome non comune di cinghiale. Ci saranno amicizie che non potranno mai nascere, e altre destinate a durare – giorno dopo giorno – per sempre.
Troveremo uomini tormentati o distrutti, uomini strani e geniali, donne rimpiante per sempre, donne come Agnese, che, da morta, aleggerà come un respiro lungo tutto il romanzo, anche quando non sarà nominata; donne che scelgono, che rinunciano, che combattono. Ci saranno discorsi fatti di tutto e di niente, monologhi notturni, botta e risposta, lì, tra i boschi. Notti dentro le quali nascono e muoiono (per poi rinascere) le grandi domande: quelle che tentano di afferrare il futuro, che interrogano il passato o altre che non possono essere pronunciate al tempo presente, perché il tempo che è spaventa più di quello che sarà. Domande sulla vita e la morte, che sono separate, unite, sovrapposte, indivisibili. Corsignano è un teatro sotto le stelle e le nevicate, i suoi abitanti si muovono a un ritmo mai troppo veloce, che è quello dello smarrimento. Dentro questo smarrimento, che è tipico dell’umano e della perdita di umanità dei nostri giorni, Giordano Meacci inserisce Apperbohr, il cinghiale, e un film: L’uomo che uccise Liberty Valance, il capolavoro del genere Western di John Ford.
Ripènsaci amico.
Apperbohr, il cinghiale, è uno dei personaggi letterari più interessanti, vitali e commoventi degli ultimi anni. Apperbohr che al suono delle parole Ripènsaci amico cambia. Da pensiero animale diventa pensiero umano, capisce ciò che gli umani dicono, e quindi ciò che pensano, ciò che sentono, non tutto, non subito. A volte gli arriveranno prima le parole e dopo i significati, o i tentativi di dare a quei suoni un significato che somigli alla sensazione che sta provando; poi saranno chiari i significati e mancheranno (come succede) le parole. Apperbohr si sentirà perduto, si innamorerà – lo capirà pagina dopo pagina e noi con lui – e lo vedrete. Tenterà di spiegare al branco ciò che il branco non può capire. Farà pensieri di vita e di morte, quasi mai compresi perché impossibili da trasmettere, nonostante i furibondi tentativi di mostrarsi e di spiegarsi. Di lui capiremo la paura e lo sgomento di chi entra in un mondo nuovo dove anche gli odori hanno un senso diverso. Apperbohr cercherà di cogliere ciò che non si può cogliere, esattamente come fanno, discutendo, le due coppie di amici Andrea/Durante fumando all’aperto, interrogandosi, parlando di tutto; e Fabrizio/Walter mentre guardano L’uomo che uccise Liberty Valance, analizzandolo scena dopo scena, così che il film diventa pretesto filosofico, ogni affronto o colpo di pistola nasconde un terzo pensiero, una terza pallottola, un terzo spettatore, che poi è Apperbohr, che sta alla finestra come John Wayne nel vicolo.
Come si racconta questo profondo smarrimento? Come si può dire l’amore e tracciare una mappa di quello che definiamo Umano? (Il pensiero corre rapido al Professor Ezio Raimondi quando raccontava il rapporto tra la lingua, lo studio di questa e l’umano). Intanto ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia, Meacci le possiede entrambe, e ciò gli consente di creare più mondi dentro un posto solo; e poi possiede il dono della scrittura che gli permette di costruire le frasi in una lingua terza, come il «terzo colore indefinibile e sfuggente», così scrive Riccardo Falcinelli (autore del progetto grafico della copertina), parlando del punto in cui nell’illustrazione di copertina John Wayne e il cinghiale (e i due colori diversi) si sovrappongono «quella sovrastampa, quella stratificazione di colori, è la metafora grafica della scrittura di Meacci.» La lingua che usa Meacci è bellissima e consente l’accesso a parole nuove, alla luce di una brillantissima punteggiatura, alla libertà di inserire dentro – i dialoghi – molti pensieri, molte andate e ritorni. La terza lingua, che mette insieme il semplice e l’impossibile, come la vita che si prepara alla morte in Ogni terzo pensiero (ora in Tutte le poesie, Einaudi, 2014) di Giovanni Raboni: «Essere… essere, sì, intimi, nel cuore/ nel midollo, con chi è con noi, con chi/ d’altro noi siamo – forse è tutto qui/ il segreto […].» La terza lingua, il terzo pensiero ci mostrano più chiaro e più a lungo, perché tengono insieme i morti e i vivi, perché è sempre tutto lì o qui.
(Ma stringi stringi è sempre torneremo? la domanda fondamentale. La frase semplice che ci spiega che tutto quello che ci fa vivere viene dalla paura della morte).
Ho la sensazione che la magia che ha compiuto Meacci con questo romanzo sia una cosa che tenteremo di ritrovare, da qui in poi, in altre cose che leggeremo, perché è una sensazione bella, come è bello il momento (che arriverà) in cui ci si commuove e sapremo esattamente quale frase di quale pagina scatenerà l’emozione particolare prossima alle lacrime, ma sapremo – anche e di più – che quel momento ha radici piantate solidamente dalla prima pagina, ed è costruito da Meacci, parola per parola.
Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)
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Ultimo aggiornamento martedì, 30 gennaio 2024
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"Il cinghiale che uccise Liberty Valance" di Giordano Meacci
È tutto un abisso di dèmoni privati, la scoperta degli altri
Una cosa va detta subito e riguarda le due possibili strade da percorrere per leggere Il cinghiale che uccise Liberty Valance; nessuna delle due strade è una scorciatoia, entrambe arrivano al cuore del libro, quale delle due scegliere è compito del lettore. La prima strada è quella della concentrazione, la seconda è quella dell’abbandono. Io ho scelto, anche se non immediatamente, la strada dell’abbandono, tenendo presente che i due percorsi si sfioreranno e si incroceranno più volte nel romanzo di Meacci; è dalla strada dell’abbandono che ve lo racconterò. Cosa intendiamo per abbandono? Nel nostro caso, intendiamo lasciarsi andare, assecondare il flusso di frasi, pensieri, situazioni, luoghi, personaggi e le loro microstorie, che l’autore ha immaginato e costruito. Paradossalmente, per abbandonarsi a un libro come questo bisogna essere molto presenti, particolarmente disposti all’ascolto. Per questo motivo l’abbandono è soltanto una forma diversa di concentrazione, ma particolare, una concentrazione che non ricorre soltanto alla memoria, al pensiero, al ragionamento, ma che è pronta a liberarsi, ad accogliere, a lasciare che la storia entri e a entrarci; a far sì – infine – che ogni ragione viaggi insieme a una accelerazione (o a un rallentamento) del battito del cuore. Scelta la strada, potremo farci travolgere, facilmente, dal ritmo di Giordano Meacci che viene da molte musiche, ma da una sola bellissima armonia.
Amedeo ha creduto, allora, crede che sia possibile una felicità senza rispetto. Un ganglio chimico del tempo in cui non si prevede, o si aspetta, semplicemente c’è, e coincide con il presente. Crede che un istante di pienezza possa dilatarsi, e conservarsi, come non esistesse nient’altro di così significativo, e totalizzante, in tutta la congerie di universi che ci sìbilano intorno e ci condizionano.
Il romanzo è ambientato a Corsignano, un paese immaginario, che sta tra le province di Siena e Perugia. Un paese dell’Italia centrale come tanti: le case, le cascine, le botteghe, il bosco, gli alberi, i bar, gli animali – e quindi i cinghiali -, i vecchi, i ragazzi, le donne e gli uomini, la gente. Persone che si conoscono tutte e da sempre. Grandi amori e rimpianti, grandi amicizie, ricordi, memorie tessute da tanti passati comuni. Poi, perdoni, amori e amori mancati, pettegolezzi, silenzi, discorsi profondi e altre storie. Ci sarà un uomo che ha cambiato idea il giorno del matrimonio e la mancata sposa che di quell’abito (in un passaggio del libro di rara bellezza), dopo averlo scucito, farà tendine della cucina e tovaglia della domenica. Ci saranno due sorelle che si prostituiscono per una vera ragione d’amore, amore totale che provano l’una per l’altra. Famiglie, dopotutto, formate e divise, annunciate o mancate. I nomi e le persone che quei nomi portano: Andrea, Bella, Amedeo, Oscar, Walter, Fabrizio, Agnese, Alighiero, Bice, Durante – La Sonia. E poi Apperbohr che è nome non comune di cinghiale. Ci saranno amicizie che non potranno mai nascere, e altre destinate a durare – giorno dopo giorno – per sempre.
Troveremo uomini tormentati o distrutti, uomini strani e geniali, donne rimpiante per sempre, donne come Agnese, che, da morta, aleggerà come un respiro lungo tutto il romanzo, anche quando non sarà nominata; donne che scelgono, che rinunciano, che combattono. Ci saranno discorsi fatti di tutto e di niente, monologhi notturni, botta e risposta, lì, tra i boschi. Notti dentro le quali nascono e muoiono (per poi rinascere) le grandi domande: quelle che tentano di afferrare il futuro, che interrogano il passato o altre che non possono essere pronunciate al tempo presente, perché il tempo che è spaventa più di quello che sarà. Domande sulla vita e la morte, che sono separate, unite, sovrapposte, indivisibili. Corsignano è un teatro sotto le stelle e le nevicate, i suoi abitanti si muovono a un ritmo mai troppo veloce, che è quello dello smarrimento. Dentro questo smarrimento, che è tipico dell’umano e della perdita di umanità dei nostri giorni, Giordano Meacci inserisce Apperbohr, il cinghiale, e un film: L’uomo che uccise Liberty Valance, il capolavoro del genere Western di John Ford.
Ripènsaci amico.
Apperbohr, il cinghiale, è uno dei personaggi letterari più interessanti, vitali e commoventi degli ultimi anni. Apperbohr che al suono delle parole Ripènsaci amico cambia. Da pensiero animale diventa pensiero umano, capisce ciò che gli umani dicono, e quindi ciò che pensano, ciò che sentono, non tutto, non subito. A volte gli arriveranno prima le parole e dopo i significati, o i tentativi di dare a quei suoni un significato che somigli alla sensazione che sta provando; poi saranno chiari i significati e mancheranno (come succede) le parole. Apperbohr si sentirà perduto, si innamorerà – lo capirà pagina dopo pagina e noi con lui – e lo vedrete. Tenterà di spiegare al branco ciò che il branco non può capire. Farà pensieri di vita e di morte, quasi mai compresi perché impossibili da trasmettere, nonostante i furibondi tentativi di mostrarsi e di spiegarsi. Di lui capiremo la paura e lo sgomento di chi entra in un mondo nuovo dove anche gli odori hanno un senso diverso. Apperbohr cercherà di cogliere ciò che non si può cogliere, esattamente come fanno, discutendo, le due coppie di amici Andrea/Durante fumando all’aperto, interrogandosi, parlando di tutto; e Fabrizio/Walter mentre guardano L’uomo che uccise Liberty Valance, analizzandolo scena dopo scena, così che il film diventa pretesto filosofico, ogni affronto o colpo di pistola nasconde un terzo pensiero, una terza pallottola, un terzo spettatore, che poi è Apperbohr, che sta alla finestra come John Wayne nel vicolo.
Come si racconta questo profondo smarrimento? Come si può dire l’amore e tracciare una mappa di quello che definiamo Umano? (Il pensiero corre rapido al Professor Ezio Raimondi quando raccontava il rapporto tra la lingua, lo studio di questa e l’umano). Intanto ricorrendo all’immaginazione e alla fantasia, Meacci le possiede entrambe, e ciò gli consente di creare più mondi dentro un posto solo; e poi possiede il dono della scrittura che gli permette di costruire le frasi in una lingua terza, come il «terzo colore indefinibile e sfuggente», così scrive Riccardo Falcinelli (autore del progetto grafico della copertina), parlando del punto in cui nell’illustrazione di copertina John Wayne e il cinghiale (e i due colori diversi) si sovrappongono «quella sovrastampa, quella stratificazione di colori, è la metafora grafica della scrittura di Meacci.» La lingua che usa Meacci è bellissima e consente l’accesso a parole nuove, alla luce di una brillantissima punteggiatura, alla libertà di inserire dentro – i dialoghi – molti pensieri, molte andate e ritorni. La terza lingua, che mette insieme il semplice e l’impossibile, come la vita che si prepara alla morte in Ogni terzo pensiero (ora in Tutte le poesie, Einaudi, 2014) di Giovanni Raboni: «Essere… essere, sì, intimi, nel cuore/ nel midollo, con chi è con noi, con chi/ d’altro noi siamo – forse è tutto qui/ il segreto […].» La terza lingua, il terzo pensiero ci mostrano più chiaro e più a lungo, perché tengono insieme i morti e i vivi, perché è sempre tutto lì o qui.
(Ma stringi stringi è sempre torneremo? la domanda fondamentale. La frase semplice che ci spiega che tutto quello che ci fa vivere viene dalla paura della morte).
Ho la sensazione che la magia che ha compiuto Meacci con questo romanzo sia una cosa che tenteremo di ritrovare, da qui in poi, in altre cose che leggeremo, perché è una sensazione bella, come è bello il momento (che arriverà) in cui ci si commuove e sapremo esattamente quale frase di quale pagina scatenerà l’emozione particolare prossima alle lacrime, ma sapremo – anche e di più – che quel momento ha radici piantate solidamente dalla prima pagina, ed è costruito da Meacci, parola per parola.
Gianni Montieri (poeta e critico, in collaborazione con Poetarum Silva)
- Ultimo aggiornamento martedì, 30 gennaio 2024
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