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Il censimento dei radical chic

Può un romanzo essere nel contempo distopico ed iper-realistico? Sì, se, come nel caso dell’ultimo libro di Giacomo Papi, racconta un’Italia che non esiste, ma che somiglia terribilmente a quella vera, giocando nel mostrare che cosa succederebbe se le idee populiste di certa politica al comando potessero affermarsi senza più ostacoli, fino a fondare una nuova morale e dettare le leggi del vivere civile.

Tutto ha inizio con una piccolissima ma tragica distrazione: il professor Giovanni Prospero – una vita intera dedicata ai libri – è stato invitato ad un talk show televisivo, e nella foga del dibattito si lascia sfuggire una citazione da Spinoza. Un errore innocente, ma destinato a costargli la vita: perché nell’Italia democratica governata dal Primo Ministro nessuno può più permettersi di usare parole difficili o formulare pensieri complessi, perché il popolo si spacca la schiena tutto il giorno e quando è davanti alla TV non vuole essere umiliato dai paroloni.

Di lì a poche ore il prof. Prospero viene ucciso a bastonate da un kommando popolare vendicatore, direttamente sullo zerbino di casa: se l’è cercata, diranno tutti, perché è stato tutta la vita dalla parte sbagliata, quella di chi pensa, e perciò rende tutto maledettamente complicato, mettendo in soggezione il popolo.

L’episodio sarà solo il primo di una serie di omicidi giusti, tappe doverose di una guerra nazionale iniziata contro i clandestini, i rom, i raccomandati, gli omosessuali, e ora giunta ad individuare un nuovo importante obiettivo: gli intellettuali, o meglio ancora, i radical chic, quelli che sanno tutto loro, usano le parole difficili, vanno in giro in giacche di tweed e mocassini di velluto, hanno la casa piena di libri e si sentono superiori a tutti.

In Parlamento si decide di istituire il Registro nazionale degli intellettuali e dei radical chic, apparentemente per garantire loro una protezione dalle brigate della beata ignoranza che vogliono ucciderli, ma in realtà per operare una schedatura nazionale che possa controllarli: 5000 nuovi funzionari vengono assunti (anche senza laurea: non si debbono fare ingiuste discriminazioni) per andare di casa in casa a schedare professori e intellettuali, che reagiscono all’assedio nei modi più svariati, chi liberandosi di tutti i libri e negando qualunque legame con la cultura, chi – massima forma di resistenza ideologica - tatuandosi sul polpaccio il logo della casa editrice Adelphi.

Nel frattempo, la Commissione ministeriale per la semplificazione della lingua si imbarca in un progetto gigantesco: eliminare dal dizionario le parole difficili e correggere l’intera produzione editoriale nazionale, purgandola delle espressioni incomprensibili al popolo. Anche la grammatica viene riformata: congiuntivo e condizionale sono aboliti per legge, mentre i segni d’interpunzione sono sostituiti dai più efficienti emoticons.

L’ignoranza assurge a valore, la cultura è giudicata un inganno. Chi ha giocato le carte della conoscenza, della riflessione, dell’approfondimento e della comprensione delle idee altrui ha perso tutto.

Divertentissimo, fra tutti, il dialogo tra una signora e il miliziano addetto al censimento:

“Mi dica, signora…”

“Guardi che dica è un congiuntivo…”

“Anche guardi è un congiuntivo.”

“No, guardi è la seconda persona: tu guardi.”

“Mi sta dando del tu?”

“Non mi permetterei mai…”

“Permetterei è condizionale”

“Non saprei.”

“Allora mi scusi.”

“Congiuntivo.”

“Cosa devo fare?”

Le atmosfere orwelliane (in una divertentissima versione “all’italiana”) ci faranno ridere, sorridere ma anche riflettere sui rischi tutt’altro che remoti della sconfitta della cultura in un Paese dove si lascia credere che il cervello non serva più a nulla, e che gli uomini siano diventati come spugne di mare: gli unici esseri viventi che, per sopravvivere, non hanno avuto bisogno di sviluppare il cervello.

Maria Stella (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)

 

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