Fisica della malinconia
"Fisica della malinconia" è un romanzo che fa comparire improvvisamente la letteratura bulgara al centro del palcoscenico del romanzo europeo. Onori dovuti, quindi, all'editore Voland, artefice della prima traduzione mondiale di quest'opera (per mano di Giuseppe Dell'Agata), nell'ambito di un costante e prezioso lavoro di carotaggio della letteratura slava, a cui dedica la collana Sírin.
Impossibile riassumere la trama. Il libro nasce come una sorta di inno di un'io plurale e racconta inizialmente la patologia straordinaria di un bambino che soffre di empatia patologica; è cioè capace di immedesimarsi negli altri esseri viventi (non soltanto umani) e di fare propri i loro ricordi e pensieri. Attraverso la sovrapposizione tra un suo ricordo d'infanzia e la narrazione mitica, la storia si interseca subito con quella del Minotauro, riletta però in una chiave tragicamente umana, come mito non della mostruosità e della ferocia ma dell'abbandono: chi è in fondo il minotauro – ci dice Gospodinov – se non un bambino a cui viene addossata una colpa (quella dell'accoppiamento tra Pasifae e il toro) non sua, e per questa viene perseguitato e infine ucciso? Una creatura orrenda, sì, ma, a leggere il mito in chiave umana, pur sempre e soltanto semplicemente un bambino abbandonato. E chi di noi non custodisce nel cuore quel trauma, quella paura di cui il mito così rivisitato ci parla?
Parte da qui un cammino di ricordi plurali, recuperi della memoria individuale e collettiva, nel tentativo di ricostruire scientificamente l'essenza della malinconia; una malinconia che più che stato d'animo è qui una condizione esistenziale e storica ben precisa, il qui e ora di un mondo che ha perso e continua a perdere pezzi come una pianta le foglie. Da qui, forse, anche la tensione a quella disperata azione di recupero del tutto che è “l'enciclopediia” in cui si trasforma a un certo punto la narrazione, ultima speranza di memoria di un'epoca senza memoria, affinché nulla vada perso; come quella zattera carica di libri nell'opera di Anselm Kiefer Il grande carico, esposta alla San Giorgio. Ecco allora le varie forme di catalogazione implicita che prendono piede nel testo: liste di programmi televisivi, di persone, di cose, di stati d'animo, di eventi, in cui privato e storico si intrecciano, per confezionare una sorta di capsula della memoria in cui custodire i ricordi per i posteri, come quelle lanciate nello spazio o sepolte da diversi Stati nel corso del Novecento e di cui Gospodinov non può che, ovviamente, stilare un regesto. La voce narrante intanto continua a tenersi sempre in bilico, indecisa tra la prima e la terza persona, vestendo spesso anche le spoglie degli animali o degli oggetti che la narrazione incrocia.
La cosa più stupefacente è dunque rendersi conto, via via durante la lettura e anche in fase di elaborazione, a lettura terminata, di quanto Gospodinov riesca a mettere in questo romanzo. C'è la storia del minotauro, c'è la storia di un bambino abbandonato da sua madre, c'è la storia di uno scrittore misterioso e proteiforme (come tutto in questo romanzo) che attraversa lo spazio e il tempo, c'è la guerra degli uomini vista con gli occhi degli animali e delle piante, c'è la storia di una mezza pazza che aspetta per decenni l'arrivo di Alain Delon davanti a un cinema di periferia, c'è la storia delle iniziazioni sentimentali e sessuali del narratore... C'è tutto questo e molto altro ancora, dentro un marchingegno che sembra rimandare sì al labirinto continuamente evocato ma ricorda anche di più un caleidoscopio, che girando produce una catena di variazioni continue del tema originario, tanto da poterci giocare senza essere affatto ossessionati dall'idea di perdere o ritrovare una strada. E infatti non ci deluderà il fatto che la narrazione intorno alla metà del libro sembri andare alla deriva in un lungo detour tra temi, luoghi, soggetti, per perdersi completamente e ritrovare il tema iniziale soltanto alla fine, in modo forse fin troppo brusco, e forse mostrando per la prima volta gli espedienti della “volontà” dell’autore, dopo un lungo viaggio sulle ali dell'ispirazione.
Romanzo sperimentale, dunque, sicuramente sì, ma anche un romanzo incredibilmente leggibile che sa essere di volta in volta lirico, epico, elegiaco, avventuroso, realistico, grottesco, surreale e allo stesso tempo sempre estremamente godibile per qualsiasi lettore, con picchi di bellezza e delicatezza abbacinante. Quale contenitore dunque più consono di una collana intitolata a Sirìn (una creatura della mitologia slava con viso di donna, corpo d'uccello e voce incantevole) poteva esistere per questo libro? Un libro che fa della ibridazione e dell'antiantropocentrismo le sue caratteristiche peculiari e che ci incanta dalla prima all'ultima pagina con una voce che sa farsi umana anche attraverso ciò che umano non è.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
Il libro è stato promosso nell'ambito del progetto Bibliodiversità della Biblioteca San Giorgio
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Ultimo aggiornamento sabato, 12 agosto 2017
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"Fisica della malinconia" è un romanzo che fa comparire improvvisamente la letteratura bulgara al centro del palcoscenico del romanzo europeo. Onori dovuti, quindi, all'editore Voland, artefice della prima traduzione mondiale di quest'opera (per mano di Giuseppe Dell'Agata), nell'ambito di un costante e prezioso lavoro di carotaggio della letteratura slava, a cui dedica la collana Sírin.
Impossibile riassumere la trama. Il libro nasce come una sorta di inno di un'io plurale e racconta inizialmente la patologia straordinaria di un bambino che soffre di empatia patologica; è cioè capace di immedesimarsi negli altri esseri viventi (non soltanto umani) e di fare propri i loro ricordi e pensieri. Attraverso la sovrapposizione tra un suo ricordo d'infanzia e la narrazione mitica, la storia si interseca subito con quella del Minotauro, riletta però in una chiave tragicamente umana, come mito non della mostruosità e della ferocia ma dell'abbandono: chi è in fondo il minotauro – ci dice Gospodinov – se non un bambino a cui viene addossata una colpa (quella dell'accoppiamento tra Pasifae e il toro) non sua, e per questa viene perseguitato e infine ucciso? Una creatura orrenda, sì, ma, a leggere il mito in chiave umana, pur sempre e soltanto semplicemente un bambino abbandonato. E chi di noi non custodisce nel cuore quel trauma, quella paura di cui il mito così rivisitato ci parla?
Parte da qui un cammino di ricordi plurali, recuperi della memoria individuale e collettiva, nel tentativo di ricostruire scientificamente l'essenza della malinconia; una malinconia che più che stato d'animo è qui una condizione esistenziale e storica ben precisa, il qui e ora di un mondo che ha perso e continua a perdere pezzi come una pianta le foglie. Da qui, forse, anche la tensione a quella disperata azione di recupero del tutto che è “l'enciclopediia” in cui si trasforma a un certo punto la narrazione, ultima speranza di memoria di un'epoca senza memoria, affinché nulla vada perso; come quella zattera carica di libri nell'opera di Anselm Kiefer Il grande carico, esposta alla San Giorgio. Ecco allora le varie forme di catalogazione implicita che prendono piede nel testo: liste di programmi televisivi, di persone, di cose, di stati d'animo, di eventi, in cui privato e storico si intrecciano, per confezionare una sorta di capsula della memoria in cui custodire i ricordi per i posteri, come quelle lanciate nello spazio o sepolte da diversi Stati nel corso del Novecento e di cui Gospodinov non può che, ovviamente, stilare un regesto. La voce narrante intanto continua a tenersi sempre in bilico, indecisa tra la prima e la terza persona, vestendo spesso anche le spoglie degli animali o degli oggetti che la narrazione incrocia.
La cosa più stupefacente è dunque rendersi conto, via via durante la lettura e anche in fase di elaborazione, a lettura terminata, di quanto Gospodinov riesca a mettere in questo romanzo. C'è la storia del minotauro, c'è la storia di un bambino abbandonato da sua madre, c'è la storia di uno scrittore misterioso e proteiforme (come tutto in questo romanzo) che attraversa lo spazio e il tempo, c'è la guerra degli uomini vista con gli occhi degli animali e delle piante, c'è la storia di una mezza pazza che aspetta per decenni l'arrivo di Alain Delon davanti a un cinema di periferia, c'è la storia delle iniziazioni sentimentali e sessuali del narratore... C'è tutto questo e molto altro ancora, dentro un marchingegno che sembra rimandare sì al labirinto continuamente evocato ma ricorda anche di più un caleidoscopio, che girando produce una catena di variazioni continue del tema originario, tanto da poterci giocare senza essere affatto ossessionati dall'idea di perdere o ritrovare una strada. E infatti non ci deluderà il fatto che la narrazione intorno alla metà del libro sembri andare alla deriva in un lungo detour tra temi, luoghi, soggetti, per perdersi completamente e ritrovare il tema iniziale soltanto alla fine, in modo forse fin troppo brusco, e forse mostrando per la prima volta gli espedienti della “volontà” dell’autore, dopo un lungo viaggio sulle ali dell'ispirazione.
Romanzo sperimentale, dunque, sicuramente sì, ma anche un romanzo incredibilmente leggibile che sa essere di volta in volta lirico, epico, elegiaco, avventuroso, realistico, grottesco, surreale e allo stesso tempo sempre estremamente godibile per qualsiasi lettore, con picchi di bellezza e delicatezza abbacinante. Quale contenitore dunque più consono di una collana intitolata a Sirìn (una creatura della mitologia slava con viso di donna, corpo d'uccello e voce incantevole) poteva esistere per questo libro? Un libro che fa della ibridazione e dell'antiantropocentrismo le sue caratteristiche peculiari e che ci incanta dalla prima all'ultima pagina con una voce che sa farsi umana anche attraverso ciò che umano non è.
Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)
Il libro è stato promosso nell'ambito del progetto Bibliodiversità della Biblioteca San Giorgio
- Ultimo aggiornamento sabato, 12 agosto 2017
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