È così lieve il tuo bacio sulla fronte
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai»
Un bacio delicato e appena accennato, un bacio nella penombra del mattino, un modo semplice e unico per dire ogni giorno “ti voglio bene”. Un ricordo intimo che nelle pagine scritte da Caterina Chinnici, la primogenita figlia di Rocco Chinnici, magistrato ucciso per mano della mafia in un’afosa mattina di fine luglio, assume i tratti di un momento indimenticabile che si ripete nel tempo, anche da adulta, poco prima di quella terribile giornata.
È il 29 luglio 1983 quando viene fatta esplodere un’autobomba in via Pitone a Palermo: muoiono il giudice Rocco Chinnici, i quattro uomini della scorta e il portiere dello stabile dove il magistrato viveva insieme ai suoi tre figli. Rocco Chinnici era da tempo al centro del mirino: è stato infatti precursore e innovatore dei tempi, parlando ai giovani delle scuole della gravità della mafia, come un qualcosa da non sottovalutare, come una “mala pianta” che stava distruggendo il tessuto sociale, economico del nostro paese e non solo. Grazie alla sua opera di informazione, ma anche all’impegno profuso per far nascere associazioni di volontariato che contrastassero con forza e tenacia il proliferare di associazioni delinquenti è stato a lungo ricordato.
Chinnici entrò nella magistratura nel 1952, fu pretore a Partanna e, dopo alcuni anni, in seguito alla morte del giudice Cesare Terranova, divenne capo dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo. Negli anni ottanta entrarono a far parte della sua squadra alcuni giovani magistrati, tra i quali Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe di Lello. Nasce quello che dieci anni più tardi sarebbe stato denominato da Antonino Caponnetto il “pool antimafia”: Chinnici, forte della sua esperienza di uomo e giudice, aveva intuito che per contrastare il terreno mafioso era necessario far circolare le informazioni tra i vari uffici, riunire i differenti filoni di indagine, frantumare i differenti tasselli per poi riunirli in un unico mosaico. Questa è stata la sua storia, la storia di un uomo antesignano per i suoi tempi, anticipatore della lotta alla criminalità mafiosa, cui è toccato pagare con la propria vita il dovere compiuto.
La religione e l’attaccamento al lavoro sono visti come un dovere morale, a cui è impossibile sottrarsi: perfino negli ultimi mesi, quando la moglie lo prega di compilare la domanda di trasferimento per Torino, Rocco Chinnici prende tempo, pur sapendo dentro di sé che mai si sarebbe allontanato da Palermo. Comprendeva l’enorme responsabilità del suo lavoro e il conseguente rischio che ne derivava; ma non per questo si è mai sottratto ai suoi doveri di giudice e cittadino.
Il libro scritto da Caterina Chinnici, a sua volta giudice impegnata nella lotta alla mafia che ancora vive sotto scorta, ci restituisce tutto questo e anche di più: da ogni singola riga trapela, infatti, l’umanità del padre Rocco, la cura nel prendersi carico delle esigenze della moglie e i tre figli, la disponibilità ad aiutare il prossimo. Se nella prima parte del libro Caterina racconta la vita di famiglia, serena, nonostante le difficoltà, è soprattutto la seconda a catturare l’attenzione del lettore e a porre infiniti quesiti. Imparare a vivere senza un padre è già difficile, imparare a perdonare chi l’ha portato via sotto i tuoi occhi ancora di più. Eppure l’unico modo di sentirsi degni del messaggio altissimo che il padre e il marito Chinnici lascia in eredità, sembra essere proprio quello di continuare a vivere una vita “normale”. «Ricominciare a vivere senza papà è stato come cercare di rimanere in piedi senza l’assenza di gravità», fare i conti con le proprie paure, i propri rancori e scegliere di andare avanti, senza tradire il suo messaggio «Improvvisamente ci ritrovammo senza certezze, così ci chiedemmo cosa avrebbe fatto lui. Risposta semplice, il suo dovere. […] Il dolore a volte si presenta nella forma subdola di una coperta calda e morbida: ti verrebbe voglia di avvolgerti e di non uscirne più. Sembra proteggerti, in realtà ti nasconde alla vita, ti impedisce di partecipare, di fare la tua parte».
Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
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Ultimo aggiornamento giovedì, 7 maggio 2015
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«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai»
Un bacio delicato e appena accennato, un bacio nella penombra del mattino, un modo semplice e unico per dire ogni giorno “ti voglio bene”. Un ricordo intimo che nelle pagine scritte da Caterina Chinnici, la primogenita figlia di Rocco Chinnici, magistrato ucciso per mano della mafia in un’afosa mattina di fine luglio, assume i tratti di un momento indimenticabile che si ripete nel tempo, anche da adulta, poco prima di quella terribile giornata.
È il 29 luglio 1983 quando viene fatta esplodere un’autobomba in via Pitone a Palermo: muoiono il giudice Rocco Chinnici, i quattro uomini della scorta e il portiere dello stabile dove il magistrato viveva insieme ai suoi tre figli. Rocco Chinnici era da tempo al centro del mirino: è stato infatti precursore e innovatore dei tempi, parlando ai giovani delle scuole della gravità della mafia, come un qualcosa da non sottovalutare, come una “mala pianta” che stava distruggendo il tessuto sociale, economico del nostro paese e non solo. Grazie alla sua opera di informazione, ma anche all’impegno profuso per far nascere associazioni di volontariato che contrastassero con forza e tenacia il proliferare di associazioni delinquenti è stato a lungo ricordato.
Chinnici entrò nella magistratura nel 1952, fu pretore a Partanna e, dopo alcuni anni, in seguito alla morte del giudice Cesare Terranova, divenne capo dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo. Negli anni ottanta entrarono a far parte della sua squadra alcuni giovani magistrati, tra i quali Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Giuseppe di Lello. Nasce quello che dieci anni più tardi sarebbe stato denominato da Antonino Caponnetto il “pool antimafia”: Chinnici, forte della sua esperienza di uomo e giudice, aveva intuito che per contrastare il terreno mafioso era necessario far circolare le informazioni tra i vari uffici, riunire i differenti filoni di indagine, frantumare i differenti tasselli per poi riunirli in un unico mosaico. Questa è stata la sua storia, la storia di un uomo antesignano per i suoi tempi, anticipatore della lotta alla criminalità mafiosa, cui è toccato pagare con la propria vita il dovere compiuto.
La religione e l’attaccamento al lavoro sono visti come un dovere morale, a cui è impossibile sottrarsi: perfino negli ultimi mesi, quando la moglie lo prega di compilare la domanda di trasferimento per Torino, Rocco Chinnici prende tempo, pur sapendo dentro di sé che mai si sarebbe allontanato da Palermo. Comprendeva l’enorme responsabilità del suo lavoro e il conseguente rischio che ne derivava; ma non per questo si è mai sottratto ai suoi doveri di giudice e cittadino.
Il libro scritto da Caterina Chinnici, a sua volta giudice impegnata nella lotta alla mafia che ancora vive sotto scorta, ci restituisce tutto questo e anche di più: da ogni singola riga trapela, infatti, l’umanità del padre Rocco, la cura nel prendersi carico delle esigenze della moglie e i tre figli, la disponibilità ad aiutare il prossimo. Se nella prima parte del libro Caterina racconta la vita di famiglia, serena, nonostante le difficoltà, è soprattutto la seconda a catturare l’attenzione del lettore e a porre infiniti quesiti. Imparare a vivere senza un padre è già difficile, imparare a perdonare chi l’ha portato via sotto i tuoi occhi ancora di più. Eppure l’unico modo di sentirsi degni del messaggio altissimo che il padre e il marito Chinnici lascia in eredità, sembra essere proprio quello di continuare a vivere una vita “normale”. «Ricominciare a vivere senza papà è stato come cercare di rimanere in piedi senza l’assenza di gravità», fare i conti con le proprie paure, i propri rancori e scegliere di andare avanti, senza tradire il suo messaggio «Improvvisamente ci ritrovammo senza certezze, così ci chiedemmo cosa avrebbe fatto lui. Risposta semplice, il suo dovere. […] Il dolore a volte si presenta nella forma subdola di una coperta calda e morbida: ti verrebbe voglia di avvolgerti e di non uscirne più. Sembra proteggerti, in realtà ti nasconde alla vita, ti impedisce di partecipare, di fare la tua parte».
Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
- Ultimo aggiornamento giovedì, 7 maggio 2015
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