Cattiva
Le madri e i padri posseggono millenni di esperienza alle spalle, ma nessuno in tutta l'evoluzione umana è mai diventato un genitore perfetto. L’esperienza al genitore deve insegnare solo una cosa: non sapere, perché è lì che risiede la salvezza del figlio.
Nei libri ci sono a volte parole che vorresti mandare a memoria e custodire dentro di te, perché sai che prima o poi serviranno a dare forma ai tuoi pensieri, a spiegare qualcosa che ti sfugge nella realtà o più semplicemente ti daranno conforto in momenti di smarrimento. Ha questa forza la scrittura ampia e tesa, senza macchie e sbavature, di Rossella Milone, giovane e affermata scrittrice napoletana giunta con "Cattiva" al suo settimo titolo. L'autrice affronta in questo romanzo un tema molto dibattuto, come è quello della maternità, ma lo fa in maniera originale e sorprendentemente intelligente. Mentre la maggior parte delle riviste o dei romanzi sdogana il mito di una madre che appena partorito sta bene, culla il suo bambino ed è colma di gioia, questo libro non si abbandona a nessuno di questi cliché, ma anzi li sfida per dimostrare che il parto e il puerperio sono sì esperienze meravigliose, ma rappresentano anche un momento di estrema fragilità nella vita di una donna che si deve adattare a qualcosa di nuovo, trascurando o addirittura annullando ciò che era prima.
Sei troppo, sei un carico smisurato, essere la tua unica fonte di sopravvivenza mi paralizza, ché essere la salvezza di qualcuno significa che un poco tu muori – e morire non vuole nessuno.
Emilia, donna trentenne ironica e determinata con alle spalle un lavoro da guida turistica, vive a Napoli insieme al marito Vincenzo che lavora all'aeroporto: passa quasi tutta la giornata da sola con Lucia, la bimba di due mesi e si dibatte tra il timore di allontanarsi troppo dalla figlia e l'inconfessabile desiderio di fuggire. Le veglie notturne forzate e la conseguente stanchezza fisica e psicologica di Emilia si alternano a momenti di grande forza in cui la donna (come tutte le madri) è investita da qualcosa di atavico, un amore impossibile da ignorare che regala una grande carica vitale ma toglie energie. Questa dicotomia di sentimenti trova una sua corrispondenza nella successione di due piani temporali che corrono paralleli e costituiscono la struttura ossea del romanzo: il primo ricorda il momento del parto, descritto come esperienza prima di tutto fisica, il secondo che coincide con i primi mesi di vita della neonata è il presente narrativo. Il lettore capisce fin dalle prime pagine che non esiste un classico prima e dopo a separare le emozioni e i pensieri di una madre: sono piuttosto le esperienze, il continuo inventarsi da donna a madre che permeano il rapporto tra Emilia e Lucia. Per questo motivo oltre ai due piani temporali codificati, ne potremmo ipotizzare altri: il tempo dell'attesa in cui Emilia e Lucia condividono lo stesso spazio interno in un corpo che mano a mano diventa sempre più goffo e snaturato; il periodo dell’allattamento, quando la madre si trova una piccola creatura in braccio e tra senso di smarrimento e gioia fa i conti fin da subito con la sua naturale inadeguatezza (Ma tu che vuoi da me?); il tempo vuoto in cui la madre guarda la bambina dormire per ore assaporandone ogni singolo istante ; la ciclicità generazionale in cui Emilia si confronta con la sua mamma, nella vana e affannosa ricerca di risposte:
Pure lei deve aver pianto con me neonata attaccata al suo petto, mentre mi ribellavo e singhiozzavo, perché non sapevo che ci facevo lì, nata, nel mondo; pure lei deve aver sentito l'impotenza ghiacciata piombarle addosso, nelle sue notti afflitte e vuote. Pure lei deve saperlo cosa significa, non sapere cosa fare.
Infine, un'altra sequenza transitoria si può scorgere nella seconda parte del romanzo, quella, per usare una felice espressione di Michela Murgia, di un futuro interiore; il tempo del distacco, in cui la madre, pur essendo consapevole che lei deve riappropriarsi della propria vita e la bimba deve vivere la sua, avverte un senso profondo di solitudine e di assenza:
Tutti i figli prima o poi dicono Mamma se te ne vai io muoio, e la madre lo sa che è una bugia, ma lei ha bisogno di quella bugia, ché altrimenti che senso avrebbe trasformarsi in qualcun altro, cambiare quello che sei per diventare un essere che deve guidare un altro essere per farlo diventare un uomo o una donna? […] E quindi rimango con te, bimba, ché senza di me tu muori, ché senza di te io muoio. E dentro questa bugia tutte e due ci diciamo la verità.
L’autrice in questo romanzo ha voluto rendere omaggio anche ad una nuova generazione di padri: Vincenzo non fa una brutta figura, è un padre che non è “evaporato” (secondo la teoria di Lacan) e discorda con il prototipo del pater familias; è un uomo che cerca di vivere appieno la sua genitorialità e al tempo stesso di dare conforto alla moglie. La battaglia di emozioni che investe Emilia e il sentirsi a giorni alterni una buona o una cattiva madre dà il titolo a questo bel romanzo che si conclude in modo sagace, ironico, ma con un messaggio di speranza per tutte le madri e i padri: la cattiveria o il senso di inadeguatezza sono solo frutto di aspettative esagerate. Insomma, il futuro dei nostri figli non dipende (per fortuna) tutto dai genitori: non possiamo conoscere o prevedere ciò che succederà, al momento bisogna accontentarsi “solo” di camminare tutti insieme: madre, padre e figlia.
Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
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Ultimo aggiornamento lunedì, 5 novembre 2018
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Le madri e i padri posseggono millenni di esperienza alle spalle, ma nessuno in tutta l'evoluzione umana è mai diventato un genitore perfetto. L’esperienza al genitore deve insegnare solo una cosa: non sapere, perché è lì che risiede la salvezza del figlio.
Nei libri ci sono a volte parole che vorresti mandare a memoria e custodire dentro di te, perché sai che prima o poi serviranno a dare forma ai tuoi pensieri, a spiegare qualcosa che ti sfugge nella realtà o più semplicemente ti daranno conforto in momenti di smarrimento. Ha questa forza la scrittura ampia e tesa, senza macchie e sbavature, di Rossella Milone, giovane e affermata scrittrice napoletana giunta con "Cattiva" al suo settimo titolo. L'autrice affronta in questo romanzo un tema molto dibattuto, come è quello della maternità, ma lo fa in maniera originale e sorprendentemente intelligente. Mentre la maggior parte delle riviste o dei romanzi sdogana il mito di una madre che appena partorito sta bene, culla il suo bambino ed è colma di gioia, questo libro non si abbandona a nessuno di questi cliché, ma anzi li sfida per dimostrare che il parto e il puerperio sono sì esperienze meravigliose, ma rappresentano anche un momento di estrema fragilità nella vita di una donna che si deve adattare a qualcosa di nuovo, trascurando o addirittura annullando ciò che era prima.
Sei troppo, sei un carico smisurato, essere la tua unica fonte di sopravvivenza mi paralizza, ché essere la salvezza di qualcuno significa che un poco tu muori – e morire non vuole nessuno.
Emilia, donna trentenne ironica e determinata con alle spalle un lavoro da guida turistica, vive a Napoli insieme al marito Vincenzo che lavora all'aeroporto: passa quasi tutta la giornata da sola con Lucia, la bimba di due mesi e si dibatte tra il timore di allontanarsi troppo dalla figlia e l'inconfessabile desiderio di fuggire. Le veglie notturne forzate e la conseguente stanchezza fisica e psicologica di Emilia si alternano a momenti di grande forza in cui la donna (come tutte le madri) è investita da qualcosa di atavico, un amore impossibile da ignorare che regala una grande carica vitale ma toglie energie. Questa dicotomia di sentimenti trova una sua corrispondenza nella successione di due piani temporali che corrono paralleli e costituiscono la struttura ossea del romanzo: il primo ricorda il momento del parto, descritto come esperienza prima di tutto fisica, il secondo che coincide con i primi mesi di vita della neonata è il presente narrativo. Il lettore capisce fin dalle prime pagine che non esiste un classico prima e dopo a separare le emozioni e i pensieri di una madre: sono piuttosto le esperienze, il continuo inventarsi da donna a madre che permeano il rapporto tra Emilia e Lucia. Per questo motivo oltre ai due piani temporali codificati, ne potremmo ipotizzare altri: il tempo dell'attesa in cui Emilia e Lucia condividono lo stesso spazio interno in un corpo che mano a mano diventa sempre più goffo e snaturato; il periodo dell’allattamento, quando la madre si trova una piccola creatura in braccio e tra senso di smarrimento e gioia fa i conti fin da subito con la sua naturale inadeguatezza (Ma tu che vuoi da me?); il tempo vuoto in cui la madre guarda la bambina dormire per ore assaporandone ogni singolo istante ; la ciclicità generazionale in cui Emilia si confronta con la sua mamma, nella vana e affannosa ricerca di risposte:
Pure lei deve aver pianto con me neonata attaccata al suo petto, mentre mi ribellavo e singhiozzavo, perché non sapevo che ci facevo lì, nata, nel mondo; pure lei deve aver sentito l'impotenza ghiacciata piombarle addosso, nelle sue notti afflitte e vuote. Pure lei deve saperlo cosa significa, non sapere cosa fare.
Infine, un'altra sequenza transitoria si può scorgere nella seconda parte del romanzo, quella, per usare una felice espressione di Michela Murgia, di un futuro interiore; il tempo del distacco, in cui la madre, pur essendo consapevole che lei deve riappropriarsi della propria vita e la bimba deve vivere la sua, avverte un senso profondo di solitudine e di assenza:
Tutti i figli prima o poi dicono Mamma se te ne vai io muoio, e la madre lo sa che è una bugia, ma lei ha bisogno di quella bugia, ché altrimenti che senso avrebbe trasformarsi in qualcun altro, cambiare quello che sei per diventare un essere che deve guidare un altro essere per farlo diventare un uomo o una donna? […] E quindi rimango con te, bimba, ché senza di me tu muori, ché senza di te io muoio. E dentro questa bugia tutte e due ci diciamo la verità.
L’autrice in questo romanzo ha voluto rendere omaggio anche ad una nuova generazione di padri: Vincenzo non fa una brutta figura, è un padre che non è “evaporato” (secondo la teoria di Lacan) e discorda con il prototipo del pater familias; è un uomo che cerca di vivere appieno la sua genitorialità e al tempo stesso di dare conforto alla moglie. La battaglia di emozioni che investe Emilia e il sentirsi a giorni alterni una buona o una cattiva madre dà il titolo a questo bel romanzo che si conclude in modo sagace, ironico, ma con un messaggio di speranza per tutte le madri e i padri: la cattiveria o il senso di inadeguatezza sono solo frutto di aspettative esagerate. Insomma, il futuro dei nostri figli non dipende (per fortuna) tutto dai genitori: non possiamo conoscere o prevedere ciò che succederà, al momento bisogna accontentarsi “solo” di camminare tutti insieme: madre, padre e figlia.
Carolina (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
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