Casa d'altri
Casa d'altri è il piccolo capolavoro del romanziere, scomparso giovanissimo, Silvio D'Arzo (pseudonimo di Ezio Comparoni), grande "irregolare" della letteratura italiana del Novecento.
Il romanzo, che già dalla sua prima uscita postuma, nel 1952, Montale definì "perfetto", è attraversato da una cupa, ma modernissima, domanda metafisica che interroga il dolore del mondo e il senso finale del nostro esistere "senza un cielo sopra la testa" e che lo pone, proprio per questo, in una dimensione cruciale, tutta novecentesca in senso beckettiano, rispetto all'imperante neorealismo di quegli anni. Forse la definizione più pertinente e intensa di che cosa rappresentino queste cento durissime pagine l'ha data Giorgio Manganelli, ritrovando la sua "anomalia" rispetto alla tradizione del nostro Novecento nel suo essere una "tragedia teologica", in cui si affrontano due anime che guardano in modo diverso alla morte, la vecchia Zelinda che, sull'aspro Appennino Reggiano, tutti i giorni va a lavare i panni al fiume accompagnata da una capra, e l'anziano prete, sperduto nella solitudine dei tramonti viola di quelle "sette case, sette tetti e montagne fin che si vuole". Un classico, un grande racconto della letteratura italiana, amato dai critici, ma assolutamente dimenticato nelle antologie scolastiche, sul tema del silenzio e del senso ultimo dell'esistenza
Ilaria (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)
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Ultimo aggiornamento martedì, 24 dicembre 2013
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Casa d'altri è il piccolo capolavoro del romanziere, scomparso giovanissimo, Silvio D'Arzo (pseudonimo di Ezio Comparoni), grande "irregolare" della letteratura italiana del Novecento.
Il romanzo, che già dalla sua prima uscita postuma, nel 1952, Montale definì "perfetto", è attraversato da una cupa, ma modernissima, domanda metafisica che interroga il dolore del mondo e il senso finale del nostro esistere "senza un cielo sopra la testa" e che lo pone, proprio per questo, in una dimensione cruciale, tutta novecentesca in senso beckettiano, rispetto all'imperante neorealismo di quegli anni. Forse la definizione più pertinente e intensa di che cosa rappresentino queste cento durissime pagine l'ha data Giorgio Manganelli, ritrovando la sua "anomalia" rispetto alla tradizione del nostro Novecento nel suo essere una "tragedia teologica", in cui si affrontano due anime che guardano in modo diverso alla morte, la vecchia Zelinda che, sull'aspro Appennino Reggiano, tutti i giorni va a lavare i panni al fiume accompagnata da una capra, e l'anziano prete, sperduto nella solitudine dei tramonti viola di quelle "sette case, sette tetti e montagne fin che si vuole". Un classico, un grande racconto della letteratura italiana, amato dai critici, ma assolutamente dimenticato nelle antologie scolastiche, sul tema del silenzio e del senso ultimo dell'esistenza
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