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Cartongesso

 

Il Veneto è tutto uguale, orizzontalmente, verticalmente, bonaccia, aviosuperficie dismessa, asfissia, campi tritati, mais, soia, noia, fine pena mai, una meravigliosa cella quattro per quattro (4 x 4) i cui internati, quattro (4) milioni di ex contadini gonfiati dall’insaccato, ulcerizzati dal cabernet, equivalgono a quattro (4) milioni di corpi ammassati, all’ergastolo, che non mi fanno più paura. È finito il Veneto.

Ho scelto di porre in testa alla recensione questo passaggio perché lo considero il codice d’accesso al romanzo di Francesco Maino. Entriamo, allora. Il Veneto, dunque, e in maniera più specifica una parte del Veneto, la zona tra Venezia e Treviso, il Piave, Mestre, Fossalta. Il Veneto che sa di muffa e di terra bruciata, delle villette a schiera e delle villone, del trucco marcato, del razzismo, del tutto ridotto a niente. Un niente che suona gretto, che sa di ignoranza, che puzza come un Raboso andato a male. Un niente allungato in birre annacquate. Il regno dello spritz e del cartongesso.

Il protagonista e voce narrante di Cartongesso (vincitore del Premio Calvino) è un avvocato, Michele Tessari, avvocato delle piccole cause a perdere, che si muove tra Insaponata, il paese in cui vive, e Venezia. Fa la spola sui regionali stracarichi oppure sulla Clio del padre, perché, come vedremo, anche comprare una macchina è una scelta, vuol dire prendere un’iniziativa, ma Tessari non sceglie. Tessari aggancia la propria vita a una serie di non scelte, di cose lasciate accadere. Osserva il piccolo mondo che lo circonda fatto di ubriaconi, campagnoli, immigrati (i suoi unici clienti) e avvocati miliardari; questi ultimi impegnati ad accumulare denaro in ogni maniera possibile, fregandosene della giustizia e dei clienti. Il nostro protagonista racconta questo mondo con profonda capacità di analisi, ma questa lucidità non gli consente di staccarsi da tutto ciò che non sopporta, e da ciò che ama, come i propri genitori, o da quello che – forse – gli manca, un fratello di cui non si sa nulla. Siamo a conoscenza del fatto che prima c’era e che adesso non c’è. Michele è parte di ciò che non sopporta perché non si sopporta. Ha passato la vita, circa quarant’anni, ad accumulare ritardi e inadeguatezze, e adesso vive in apnea in un mare di Cabernet, così come il resto di questa terra veneta. Michele Tessari è solo. Ma chi è il colpevole? È il Veneto che incatena e imbruttisce la sua gente? O è la gente che, preda delle paure e dell’ignoranza, ha reso arida una terra tanto bella e ricca di storia? Michele pare porsi questa domanda tutti i giorni, si chiede: Sono vittima o colpevole?

Tutto accade in Cartongesso grazie alla prosa splendida di Francesco Maino. La sua scrittura si regge su un grande talento, un bel ritmo e su una maniera diversa di usare la lingua. Mentre leggevo mi è tornato più volte in mente il formidabile "Cattiverìa" di Rosario Palazzolo (Perdisa Pop, 2013). Una storia siciliana quella, una storia veneta questa. Entrambe narrazioni in cui la lingua travolge: risucchia in un vortice nel caso di Palazzolo, prende a schiaffi nel caso si Maino. Narrazioni che scuotono, sparigliano, cambiano le regole del gioco. Cartongesso è una corsa a perdifiato che non puoi interrompere. Avresti voglia di buttare giù quelle pareti, di disattivare i sistemi d’allarme o di prendere Tessari per la cravatta e poi di abbracciarlo. Noi cosa saremmo (siamo) in grado di fare al suo posto? Sapremmo (sappiamo) uscire dalla palude o continueremmo (continueremo) a sprofondare? Chi si salverà?

Michele Tessari è uno dei personaggi più soli e significativi che io abbia mai incrociato, ed è anche il personaggio perfetto. Cartongesso è un libro bellissimo, una storia che non fatico a immaginare sul palco di un teatro, maneggiata da un Marco Paolini o da qualcuno altrettanto bravo. Buona lettura, davvero.

 

Gianni Montieri (poeta e critico), in collaborazione con Poetarum Silva

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