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Benedizione

Se c’è una cosa su cui gli scrittori americani non smettono di insegnarci continuamente qualcosa è la strettissima relazione tra il destino di un uomo e la sua terra, i suoi luoghi. Una ennesima prova di questa capacità ci viene da Kent Haruf, pressoché sconosciuto in Italia quanto apprezzato in America come uno dei maestri del romanzo contemporaneo. A farlo celebrare alla stregua di un Cormack McCarthy o di un Richard Ford sono stati soprattutto i suoi ultimi tre romanzi (dei cinque pubblicati in vita, mentre un sesto è uscito postumo appena poche settimane fa), di cui il neonato editore Enne Enne di Milano comincia la pubblicazione italiana sotto il titolo generale di “Trilogia della Pianura”, iniziando da “Benediction” (2013), che della trilogia è l’ultimo in ordine di pubblicazione originale dopo” Plainsong” (1999, già pubblicato in Italia da Rizzoli sotto il titolo di "Canto della pianura") ed “Eventide” (2004). Filo rosso della trilogia è l’ambientazione nella cittadina Holt, in Colorado, luogo non vero ma più vero del vero, immagine emblematica della provincia rurale americana, con la sua tranquilla quotidianità basata sull’invariabilità dei propri cardini e sul silenzio impassibile che inghiotte ogni dubbio e ogni evento controverso, cancellandolo apparentemente anche dalla memoria, per riemergere soltanto – forse – nella coscienza delle persone, al momento della resa dei conti.

In "Benedizione" a saldare il conto con la propria coscienza è chiamato uno degli abitanti più popolari di Holt: l’anziano Dad Lewis, una vita dedicata al commercio di ferramenta e alla vita coniugale, che sin dalla prima pagina entra in scena nell’ambulatorio di un medico che gli diagnostica una malattia mortale. L’estate appena iniziata sarà la scena del suo lungo addio alla vita. Gli si stringono intorno, in una lenta e affettuosa pavane funebre, la moglie Mary, la figlia Lorraine e altri amici e concittadini che con Dad hanno avuto a che fare. Dad è un uomo spigoloso e retto che vive con virile dignità l’ultima ora che gli è concessa. Un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che si sono fatti da soli, e che forse non ha troppo da farsi perdonare nella vita, ma nelle venature del proprio addio emergono due grandi rimpianti legati alla propria rigidità.

Tutti i personaggi principali del libro sembrano tesi tra le loro qualità ferme, rigide, di un radicamento e di una saldezza quasi sacra, e le ferite, i rimorsi, le mancanze, le incapacità che questa natura gli genera. In questa ambivalenza si legge la quintessenza di un certo tipo di provincia rurale americana, che Haruf ha vissuto e respirato silenziosamente sin dalla sua infanzia: da una parte la necessità anche virtuosa di difendere i propri valori tradizionali (la rettitudine, la fedeltà, la coerenza, la giustizia..), come fossero la propria casa, dall’altra la cecità che questo sguardo fisso, immobilizzato, di fatto provoca, come in una eterna età dell’innocenza che innocenza non è mai. Una tensione nascosta ma sempre presente, somministrata in maniera che si potrebbe dire omeopatica da una scrittura sempre delicata, nell’ottica ribadita dallo stesso autore all’editore italiano che gli comunicava la futura pubblicazione della trilogia: “Voglio solo sperare questi libri possano essere un contrappunto alle divisioni e le violenze di questi tempi”. In questo ultimo capitolo a fare da innesco e far esplodere la tensione (ma anche l’esplosione sarà a sua volta assorbita da un silenzio geologico) è l’arrivo a Holt del Reverendo Lyle, già allontanato da Denver per aver difeso pubblicamente un omosessuale e qui infine accusato e aggredito per strada con l’accusa di essere un filo terrorista per le sue omelie pacifiste.

C’è della luce e del buio in ciascuno dei personaggi di Haruf, come c’è di lui stesso e della propria vita in ciascuno di loro. Bisognerebbe scrivere numerose pagine e citare interi paragrafi per sottolineare la grazia, la delicatezza, la precisione con cui l’autore fa muovere questi uomini e queste donne alle prese con la fatica quotidiana di credere a qualcosa e difenderlo, con il bene e il male che ciò comporta; uomini e donne che davvero, è stato scritto, non si fatica a credere che siano esistiti veramente, per la loro esatta ordinarietà. Permetterci di guardare in loro in piena onestà, come se ci guardassimo in uno specchio, è il grande dono che Haruf ci ha lasciato insieme a una grande lezione di umiltà e saggezza.

Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)

Il libro è stato promosso nell'ambito del progetto Bibliodiversità della Biblioteca San Giorgio

 

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