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Benedetti da Parker

Alessandro Agostinelli ama dire di aver scritto un romanzo jazz in due tempi: una prima parte scritta in modo scoppiettante come un bebop e una seconda parte più malinconica come il pezzo di una funeral band di New Orleans. E in effetti in due tempi pare nettamente divisa la vicenda che lo scrittore pisano in Benedetti da Parker ricostruisce, fondendo le ricerche dello studioso e del viaggiatore con l’immaginazione del romanziere.

Al centro di tutto c’è la figura di Dean Benedetti, italoamericano nato nello Utah nel 1922, bravo giocatore di pallacanestro e dignitoso sassofonista jazz che un giorno sulla propria strada trova colui che per ogni jazzista della sua generazione rappresentava più o meno un dio in terra: Charlie Parker, il più decisivo sassofonista della storia della musica improvvisata. Dall’incontro tra l’onesto ma ordinario talento di Benedetti e il genio assoluto di Parker scaturisce una vicenda di emulazione che porta Benedetti a bruciare la propria vita nel solco di Parker, fino ad annichilirsi nell’eroina come il suo idolo. Dominato dalla sua monomania per Parker, Benedetti vede affievolirsi la propria vocazione di fronte all’enorme sproporzione con un vero e proprio genio, ma allo stesso tempo si fa testimone di una vicenda unica e trova un suo ruolo nella Storia, quella con la S maiuscola: Benedetti infatti segue Parker dappertutto registrando i suoi assoli con un rudimentale registratore di vinili e costituisce un importantissimo tesoro documentario che, per lungo tempo considerato mitico ma perduto, solo molti anni dopo è stato ritrovato a casa del fratello Rick. Questo ritrovamento nel romanzo non si racconta. Il secondo tempo del romanzo (e della vita di Benedetti) è invece ambientato in Italia. Dean decide infatti a un certo punto di abbandonare gli Stati Uniti per problemi con la giustizia e di compiere al contrario il viaggio che i suoi genitori, lucchesi, avevano fatto in origine; attraversa l’oceano in direzione Europa e finisce per autoesiliarsi nella sonnolenta Torre del Lago, ai margini dell’Italia degli Anni Cinquanta, dove l’America sembra un sogno e dove, per un estremo segno del destino, muore alla stessa età di Parker, ovvero pochi mesi prima di compiere i trentacinque anni.

Il libro di Agostinelli è il libro di un viaggiatore che per una volta si sposta nel tempo invece che nello spazio ed entrando nelle scarpe di Benedetti ci porta lì dove ogni appassionato di jazz avrebbe voluto essere: alle origini della grande rivoluzione della musica improvvisata, negli anni che furono d’oro per la creatività dei suoi protagonisti ma profondamente drammatici  per le loro vicende biografiche.  I due volti dell’America e dell’Italia a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta sono anche i due volti di un mondo che di lì a poco, anche grazie alla musica, sarebbe diventato piccolissimo ma che all’epoca teneva ancora distinti il continente della realtà e il continente del sogno, tanto da far credere che da qualche parte un mondo dei sogni e delle possibilità ci fosse veramente. Ma il libro di Agostinelli ci racconta anche e soprattutto una vicenda intramontabile, quella del genio: di chi lo possiede, di chi lo desidera e non ce l’ha, di chi lo riconosce quando gli passa accanto e da quel momento niente può essere più come prima. Dean Benedetti è una delle innumerevoli incarnazioni di quella figura a cui Thomas Bernhard seppe dare meglio di chiunque altro un nome, per indicare colui che è destinato a capitolare in tutto e per tutto nell’incontro con un autentico genio che lo soverchia: il soccombente.  È per questo che Benedetti da Parker può essere letto anche dai non appassionati di jazz come un lungo apologo sul talento, sulla fama e sulle alterne vicende delle fortune umane. È storia. È letteratura.

Martino (bibliotecario, Biblioteca San Giorgio)

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