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Ai piani bassi

 

”Quando ripenso agli anni che ho passato a servizio, mi capita spesso di domandarmi perché il nostro lavoro fosse così poco considerato. Perché, per esempio, ci appioppassero senza tanti complimenti l’etichetta di “serve”. Forse, mi dicevo spesso, dipendeva dalla natura intima dei nostri doveri, tutto quel servire e riverire […]. Per certi versi non si può dire che fossimo trattati meglio degli schiavi, dato che i padroni regolavano ogni aspetto della nostra vita… “

Margaret Powell fa di questo racconto autobiografico un romanzo dal fascino particolare che, malgrado l’ambientazione a noi molto lontana e gli anni trascorsi dalla sua pubblicazione (1968), è tuttora capace di coinvolgere il lettore e catturarne la complicità.

Seconda di sette figli, nata a Hove in Inghilterra a inizio Novecento, l’autrice conosce molto presto le mortificazioni della miseria (“…il mio primo ricordo è che gli altri bambini sembravano tutti più ricchi di noi…”) tanto da dover rinunciare ad una borsa di studio e al sogno di diventare insegnante, per iniziare, giovanissima, il suo pesante lavoro a servizio dell’aristocrazia inglese degli anni Trenta: prima come sguattera, poi aiuto cuoca e infine come cuoca. Non c’è niente di sorprendente in ciò che scrive - tutti conosciamo la storia e le condizioni sociali del tempo - tuttavia la sua narrazione semplice, intensa, autentica, ma anche dura e spesso straziante, colpisce e disarma allo stesso tempo. Raccontando la sua vita, la Powell descrive, con disincanto, un mondo diviso tra “loro” e “noi”, tra i padroni ricchi e sprezzanti e la servitù con tutte le sue miserie, tra i frivoli, ipocriti quanto sfolgoranti salotti e i freddi, bui e umidi piani bassi, tra i lussuosi banchetti a sette portate e gli scarti e gli avanzi di ogni pranzo (“…tutto quello che vedevi ovunque, non faceva altro che accentuare la differenza”).

La premessa e la consuetudine farebbero pensare a una narrazione accusatoria, carica di odio e risentimento. Ciò che colpisce invece è la completa assenza di rabbia. Rabbia che lascia spazio non alla rassegnazione, altro atteggiamento scontato date le condizioni di vita, ma a una potente ironia e ai toni garbati, e spesso divertiti, con cui denunciare tutte le contraddizioni, le ipocrisie e il gretto e ottuso orgoglio dei ricchi aristocratici. Certo, come afferma l’autrice stessa, “l’amarezza effettivamente spicca, perché era un sentimento forte; ma oggi ciò che ricordo bene sono le esperienze. […] Il servizio domestico fa capire tante cose e, in fondo, ispira a crearsi una vita migliore”. Forse, anche per questo Margaret Powell non si è lasciata travolgere dall’avvilimento per le mille umiliazioni subite ma, con forte spirito di adattamento e determinazione, ne ha saputo trarre il meglio. L'insoddisfazione per non aver potuto studiare, infatti, non la abbandonerà mai e, anche durante i suoi anni di servizio nelle case dei ricchi, non rinuncerà a coltivare, di nascosto, il piacere della lettura, quella “pessima abitudine” così tanto disprezzata dai “padroni”. Successivamente frequenterà lezioni extrauniversitarie e riuscirà finalmente a diplomarsi, mossa anche da quella spinta verso l’alto che, così potente, può provenire solo dai piani bassi.

Mila (bibliotecaria, Biblioteca San Giorgio)

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